Infatti, nel suo dispositivo di sentenza, come si dice con termine tecnico, Lord Brown, rigettando l'assunto di uno degli avvocati del magnate brianzolo, secondo il quale il pubblico ministero italiano «è interessato a politicizzare certi casi che riguardano illustri uomini politici per fini politici», scrive che «dire che i magistrati italiani stiano facendo una campagna motivata da scopi politici, o che affrontino il caso Berlusconi animati da uno spirito di persecuzione politica, significa fare un cattivo uso del linguaggio» ("L'Espresso", n. 45, 7 novembre 1996, p. 48. Corsivo mio).
Il tema dell'abuso del linguaggio è tipicamente anglossassone, ed è così vivo ed operante in quella cultura, che non lo troviamo solo nei libri di filosofia, ma, come si vede, anche in sentenze giudiziarie di qualche settimana fa. Non si può dire certo lo stesso per l'Italia, dove non solo non permea la vita quotidiana, ma è anche raro come tema di analisi e di riflessione filosofica. Giovanni Vailati fa eccezione a questa regola.
Bisogna dire che con l'etichetta «abuso di linguaggio» ci si riferisce a una grande varietà di fenomeni linguistici. L'abuso di linguaggio rilevato da Lord Brown rientrerebbe, secondo la classificazione di Jeremy Bentham, nei «sofismi di pericolo», cioè in quei sofismi il cui contenuto è la prospettazione di un qualche pericolo, e il cui fine è di reprimere senz'altro ogni discussione suscitando allarme (Il libro dei sofismi, p. 42). Il loro uso è tipico del discorso politico o giudiziario.
Gli abusi di linguaggio studiati da Vailati riguardano invece quasi sempre l'argomentazione filosofica e scientifica. Inoltre, la dizione «abuso di linguaggio» non rende completamente la ricchezza delle sue analisi, poiché egli si interessa anche di fenomeni come le ambiguità linguistiche, le illusioni verbali, l'uso di metafore "morte" - tutti fenomeni in cui è all'opera più il sistema linguistico che non i suoi utenti.
La categoria dell'anticipazione è alquanto antipatica, poiché di norma segnala un qualche abuso ermeneutico. Ma Vailati fu veramente un precursore. Ora, tenuto conto di quanto abbiamo appena detto a proposito delle sue analisi linguistiche, non deve meravigliare che nei suoi scritti si trovino anticipazioni, appunto, di indirizzi contemporanei come gli studi di teoria dell'argomentazione che vanno sotto il nome di informal logic (v. per esempio Alcune osservazioni sulle questioni di parole nella storia della scienza e della cultura); o come le ricerche retorico-linguistiche, soprattutto di area francese, sulla "semantica" dei verbi, cioè sulle metafore "morte" con le quali, nel discorso, si indicano operazioni di pensiero: la tal cosa "si basa", ecc. (v. per esempio I tropi della logica); o come, ancora, di analisi semiotiche comparate della logica e del linguaggio (v. per esempio La grammatica dell'algebra).
In generale, c'è però da chiarire un equivoco a proposito di Vailati e del suo interesse per il linguaggio, un equivoco che si nasconde dietro la dizione corrente, adottata da qualche suo esegeta (Ponzio, 1988), secondo la quale esisterebbe un «contributo» di Vailati alle scienze del linguaggio. Ora, è un fatto che tale contributo non assurge mai a teoria del linguaggio vera e propria, cioè con una sua riconoscibile identità. L'equivoco da chiarire è allora che, contrariamente a quanto Vailati stesso fa credere con i suoi frequenti riferimenti al linguaggio e agli «sviluppi straordinari della filologia comparata» (Scritti, p. 118), egli è interessato non al linguaggio, ma piuttosto al ragionamento, cioè al modo in cui viene usato il ragionamento nell'argomentazione scientifica e filosofica (v., per esempio, lavori come Il ruolo dei paradossi in filosofia e La caccia alle antitesi). Tutto quanto egli apprende del linguaggio, il suo tenersi al corrente degli sviluppi interni alle scienze linguistiche del suo tempo, è in funzione non della costruzione di una qualche teoria del linguaggio, bensì di un'analisi sempre più avvertita degli usi del ragionamento nell'argomentazione filosofica e scientifica. Da questo punto di vista, l'approdo finale pragmatista rappresenta la costituzione in metodo filosofico di tale pratica di analisi. Quale poi sia il significato più profondo di questo metodo, lo si comprende dalla contrapposizione che egli instaura tra il pragmatismo e ciò che egli chiama il monismo (Scritti, p. 302), la tendenza cioè a generalizzare, a dissolvere le distinzioni, a ricercare in ogni cosa l'uno o il generale (Scritti, p. 303) - in altri termini, la riduzione della riflessione scientifica e filosofica alla mera attività di identificazione.
Questo pragmatismo antimonista e dalla forte sensibilità genetica - si pensi alla valorizzazione del metodo di presentazione della logica di Peano, in quanto sa dare di tale disciplina un'idea non «statica» ma «nel suo moto e sviluppo» (Scritti, p. 240); o si pensi ancora alla sua concezione della opinioni, come fatti di cui vanno studiate le trasformazioni (Scritti, p. 65) - lascia, però, alla fine un po' delusi per il suo carattere, per così dire, solo difensivo. Esso si limita, infatti, a contrapporre alla tendenza identificatrice il mero criterio empirico della verificabilità degli enunciati e delle teorie (Scritti, p. 303).
Questa non chiusura del sistema filosofico di Vailati su una teoria positiva della ragione produttrice, può anche essere considerata come un suo pregio. Così però non è se si pensa al risultato cui perviene un Piaget - un autore che nella sua riflessione epistemologica ripercorre gli stessi passi di Vailati, dall'interesse costante per il ragionamento cui accede tramite il linguaggio, all'analisi dei concetti di definizione, di identità, di causalità, allo studio infine della natura della logica e della matematica.
A differenza di Vailati, Piaget adotta una strategia che potremmo definire d'attacco. Egli, infatti, non sceglie la strada della critica linguistica dell'argomentazione filosofica e scientifica, ma denunciando «quel mostro amputato che è la ragione esclusivamente identificatrice» (La causalità secondo E. Meyerson, p. 161), mira a determinare, in una prospettiva genetica, le strutture che fanno della ragione una attività produttrice di novità.
I risultati di questa differente strategia si vedono, ad esempio, nella rispettiva concezione della matematica. Per Vailati, la matematica è un'«attività creatrice», in quanto è indipendente «da ogni riferimento agli oggetti o alle relazioni di cui essa tratta, e alle quali essa è capace di venire applicata» (La più recente definizione della matematica, in Scritti, p. 187). Piaget, che pure perviene ad una concezione simile, si spinge sino ad analizzare le strutture di tale creatività, come mostra la sua teorizzazione intorno alle astrazioni riflettenti che procedono dall'azione del soggetto (La causalità secondo E. Meyerson, p. 181).
In altri termini, la concezione di Vailati della matematica come pura sintassi infinitamente interpretabile appare meno capace di riunire in un solo sguardo risultati della biologia, della psicologia e dell'epistemologia, così come invece avviene in Piaget, per il quale la matematica, e come vedremo dopo, anche la logica, è una "emergenza" delle azioni concrete del soggetto, biologicamente e psicologicamente inteso.
Su Piaget tornerò ancora alla fine di questa esposizione. Intanto, per concludere su Vailati, vorrei ancora osservare come quella certa delusione che ispira il suo pragmatismo non concerne solo l'epistemologia, ma anche altri aspetti della sua riflessione filosofica. Una delusione che è stata espressa da uno storico della filosofia molto serio come Mario Dal Pra, quando ha osservato che, sebbene a Vailati non mancasse la consapevolezza filosofica dei «problemi dell'uomo», cioè dei problemi propri dell'etica e della politica, egli non seppe aprirsi la via verso di essi (Introduzione all'Epistolario di Vailati, p. L). In effetti, colpisce, ad esempio, la nettezza con cui Vailati individua, nella terza delle sue grandi prolusioni, la specificità delle questioni relative al significato nel campo pratico rispetto a quello teorico. Nel campo pratico, egli dice, il significato si presenta sempre come intimamente connesso «alle questioni di interpretazione della volontà altrui» (Scritti, p. 98. Corsivo mio). Tuttavia, una così forte consapevolezza restò sempre marginale nella sua riflessione, e bisogna convenire con Dal Pra sul fatto che egli non seppe o non volle o non ebbe il tempo di farla fruttare.
IL VOLONTARISMO DIALOGICO DI GUIDO CALOGERO
L'«interpretazione della volontà altrui» e le questioni del significato linguistico ad essa connesse, sono invece al centro della riflessione filosofica di Guido Calogero. Tanto la filosofia di Vailati restò lontana dai «problemi dell'uomo», tanto quella di Calogero ne fece invece il proprio tema dominante.
Per Calogero, l'«interpretazione linguistica» coincide con «tutto il problema del linguaggio», con «tutta la semantica come scienza dell'espressione e della comunicazione» (Logica, p. 21). Tuttavia, questa «forma di ermeneutica del segno», di «interpretazione semantica delle parole e degli indizi» (ibid.) è anche sin dall'inizio una nozione etica. Ciò che distingue, infatti, l'interpretazione linguistica dall'interpretazione scientifica è «la sua costitutiva attenzione per la personalità», «la sua specifica direzione verso l'altrui coscienza» (ibid.). L'interpretazione scientifica spersonalizza gli eventi, l'interpretazione linguistica assume interamente l'«altruità» o «altrui egoità» (Etica, p. 132 e p. 138).
E, sin qui, siamo ancora a Vailati. Il passo avanti consiste nella teorizzazione di ciò che Calogero chiamerà la «situazione dialogica» (Logo e Dialogo, p. 14). Una teorizzazione che procede lungo due dimensioni, una etico-discorsiva, l'altra più propriamente linguistica. La prima dimensione costituisce una teoria del dialogo. La seconda, un'indagine circa la natura del segno linguistico. Benché queste due dimensioni vivano unitariamente nel concetto di interpretazione linguistica, Calogero stesso prenderà atto ad un certo punto che l'una non si risolve interamente nell'altra, e distinguerà infatti tra il linguaggio come «alterno sforzo di capire e del farsi capire, dell'interpretare e del comunicare» (Logo e Dialogo, p. 16), ed il linguaggio «come modo d'agire della stessa conoscenza per sé presa» (ibid.). Autorizzato anche da queste oscillazioni dello stesso Calogero, esporrò qui distintamente le sue argomentazioni circa le due dimensioni sopra richiamate.
La teoria del dialogo
L'interpretazione linguistica è dunque quella forma di ermeneutica del segno la cui specifica direzione è l'altrui coscienza. Tuttavia, per quanto ci si sforzi, l'interpretazione linguistica non giunge mai saltare «il vallo dell'egoità» (Etica, p. 132), poiché l'altruità si presenta sempre come un dato irriducibile (Etica, p. 138). Questa impossibilità a realizzare l'identità con l'altro soggetto non dovrà essere vista come un difetto, bensì come una caratteristica propria della struttura dialogico-morale. L'indagine etica ci insegna, infatti, che ogni genuina morale vive della tensione di due bisogni, quello di investirsi nella persona altrui, e quello di non raggiungere mai l'"altro" (Etica, p. 141). Il processo ermeneutico, dunque, in ciò soddisfa la natura dell'esperienza morale che lo definisce.
D'altra parte, la tensione verso l'altro che definisce, ad un tempo, la natura dell'esperienza morale ed il processo ermeneutico, non può essere oggetto di dimostrazione logica. Come mostra, infatti, l'indagine sulla genesi storica delle forme logiche - un'indagine che Calogero, quale storico della logica antica, condusse in prima persona - il principio di non-contraddizione, la coerenza semantica, i modi del sillogismo non sono altro che «schemi atti ad ostacolare gli indebiti sviamenti nell'assunzione del significato dei termini durante il corso di un colloquio» (Etica, p. 160). La loro natura è interamente discorsiva , ma in quanto «appelli alla lealtà», in quanto «norme» del gioco linguistico, essi servono soltanto a migliorare l'efficienza comunicativa della conversazione, a far sì che nel colloquio non prevalga lo spirito di sopraffazione verbale (ibid.). Con una formula molto concisa e molto attuale, se si pensa all'odierna ripresa della filosofia pratica, Calogero può allora concludere che
«non è [Š] la logica che sorregge la morale, ma al contrario la morale che rende possibile la logica, in quanto particolare etica della discussione» (Etica, p. 160).
Ora, per Calogero, la morale si fonda su un atto di volontà libero.
«Ad essere altruisti, bisogna decidersi, e per questa decisione si è soli con sé medesimi: soli con la propria volontà e libertà. Non si può esigere nessun motivo o pretesto. Si deve avanzare d'iniziativa propria, senza che i ponti alle spalle siano stati tagliati dalla ragione» (Etica, p.164).
E tale atto trae la sua origine non dalla dimostrazione logica ma dall'esempio morale.
«Quel che conta non è l'apodeixis, la "dimostrazione" razionale, ma bensì il paradeigma, l'"esempio" personale: il quale è, anch'esso, un modo di deikninai, di "mostrare" e far vedere e mettere sotto gli occhi, ma un modo che impegna infinitamente di più, che non permette di restare nell'adiaforìa argomentante. Si dimostra un teorema, e si può truffare un amico, senza che ciò comprometta l'efficienza della dimostrazione. Ma non si può ingannare, e educare alla moralità: non si può adoperare l'indifferenza della tecnica, che serve insieme per il bene e per il male, allorché il problema è quello di far amare il bene, di richiamare l'animo dalle lusinghe del male. Come la "logica" deve mutarsi in eloquenza, in vivo moto e ridestamento di affetti, così l'esempio diventa la pagina più persuasiva, per dimostrare agli altri in che modo si debba vivere. Educare all'ethos è la cosa più difficile, ed insieme la più alta che l'uomo possa fare al mondo: e come potrebbe pretendersi che vi riuscisse con quattro argomenti, senza mettervi in giuoco tutta la sua umanità, senza dare egli stesso un esempio di vita, impegnando in ciò tutta quanta la vita? A tale scopo, più che la logica dei sillogismi, giova la logica dei martiri e degli eroi» (Etica, p.168).
Come si vede, Calogero qui vola alto: educare all'ethos, egli dice, è la cosa più difficile, ed insieme più alta che l'uomo possa fare. Ma a tale scopo, più che la logica dei sillogismi, giova la logica dei martiri e degli eroi (Etica, p. 168). Su questa questione dell'esempio morale, torneremo in seguito. Intanto, prendiamo atto che quel medesimo atto di volontà libero che fonda la morale, fonda anche il dialogo. E fonda anche la legge.
Un accenno merita ciò che Calogero dice intorno alla legge. La legge, nella sua concezione, appare completamente immersa nel processo ermeneutico. Infatti, ogni legge è, sì, una dichiarazione di volontà, ma essa è tale in quanto «enunciazione verbale d'una richiesta rivolta ad altri» (Etica, p. 264). «Non c'è legge - sostiene Calogero - senza parola, e quindi senza un parlante ed una, o più, altre persone che l'ascoltino e la capiscano» L'attività giuridica è quindi una delle tante facce del comunicare dialogico, sia in quanto manifestazione della volontà del legislatore, sia in quanto comprensione di tale volontà da parte dei soggetti sottomessi alla legge: «non si capisce la volontà di legge senza risalire dalla formula all'intenzione legislatrice, col consueto processo di ricostruzione ermeneutica di ogni situazione della consapevolezza altrui» (Etica, p. 299).
Per inciso, vorrei tuttavia osservare che vi sono situazioni storiche caratterizzate da una sorta di verbalismo giuridico che rende problematica la ricostruzione ermeneutica di cui parla Calogero. In altri termini, per motivi che spetta allo storico analizzare, gli atti di enunciazione del legislatore si moltiplicano oltre ogni misura, e formano un "testo" contraddittorio non solo tra una enunciazione legislativa e l'altra, ma spesso all'interno di uno stesso atto d'enunciazione legislativa. Nel caso dell'Italia, si è propensi ad attribuire l'oscurità delle leggi al fatto linguistico che i legislatori «non sanno scrivere in italiano». Ciò non è da escludere, ma verosimilmente le leggi sono ininterpretabili anche per un fatto di ordine discorsivo, e cioè l'eccessiva frequenza e l'eterogeneità intra ed intertestuale delle enunciazioni di volontà giuridica.
Ma riprendiamo il filo del nostro discorso. Come nasce, secondo Calogero, la norma giuridica? Che cosa legittima l'enunciazione giuridica? Perché si è tenuti ad ascoltare e, quando occorra, interpretare la legge? Fare ricorso all'ipotesi del contratto, tanto nel caso della norma giuridica quanto nel caso della norma linguistica, comporta, per Calogero, di incorrere in una petizione di principio (Etica, p. 328). Infatti, nel caso di quest'ultima, ci si trova nella singolare situazione di dover «presupporre che gli uomini già s'intendano tra loro per potersi accordare sui nomi da dare alle cose» (ibid.). Analogamente, nel caso della norma giuridica, quando essa non nasca dall'iniziativa di volontà individuali, ciò che è la normalità storica, non è la legge che presuppone il contratto, ma, al contrario, è il contratto che presuppone la legge, intesa quest'ultima, appunto, come manifestazione di volontà (ibid.).
Siamo così rinviati ancora una volta al volontarismo altruistico che in Calogero fonda con un unico movimento la morale, il dialogo, il diritto e la politica, come si può vedere da questa citazione:
«come l'altruismo non discende dal diritto delle altrui persone, ma bensì il diritto delle altrui persone dalla volontà altruistica di capirle, così il principio liberale del consenso e della rappresentanza non si deduce dalla pluralità dei cittadini dello stato, ma solo dalla volontà che questi stessi cittadini possano intervenire al massimo col proprio libero convincimento, nell'instaurazione medesima delle norme coercitive» (Etica, p. 333).
In altri termini, non è il fatto empirico della eterogeneità delle opinioni che fonda il principio del consenso, ma la volontà di garantire a tutti i cittadini l'espressione del proprio convincimento, nel momento in cui si enuncia una norma giuridica o si perviene ad una decisione politica.
La teoria linguistica
Veniamo ora alla teoria linguistica che, nella filosofia del dialogo di Calogero, è come un lungo intermezzo. Dopo un primo tempo in cui vengono posti i principi cha abbiamo appena visto, si esplorano poi con i ritmi dell'adagio i confini del linguaggio, per ritornare infine con l'impeto del mosso al tema iniziale del dialogo, ma con l'arricchimento di variazioni e sfumature che il lungo intermezzo linguistico consente. In questo intermezzo, la dottrina crociana dell'identificazione di arte e linguaggio, di intuizione estetica ed espressione, fa da contrappunto ad una concezione del linguaggio, al tempo stesso, referenzialista, empirista e realista che Calogero va sbozzando.
L'esperienza del linguaggio, scrive Calogero (Estetica, p. 124), ha questo fondamentale carattere: che quel che si ama, o si odia, ciò che è oggetto della nostra gioia o del nostro dolore, non è mai il segno, ma il significato. Il segno, dunque, ha questa essenziale natura, di non costituire mai il termine reale della nostra azione, poiché essa ha sempre un «eidos», cioè un mondo di possibilità rappresentate, verso cui si orienta, o da cui rifugge (ibid.). Certo, continua Calogero, «ogni segno può essere significato da un ulteriore segno, in una illimitata catena di riferimenti semantici» (Estetica, p. 125). Ma questa catena semiotica deve pur pendere da qualche anello. E lo stabile ed ultimo anello a cui è assicurata, è appunto «quell'immediato volto della nostra pratica e consapevole realtà, la cui cancellazione cancellerebbe il senso della nostra vita, tuffandola senz'altro nel fiume del nulla» (ibid.).
Se la semiosi illimitata è puro suono che annulla il mondo (Estetica, p. 178), e se, invece, la realtà, oggetto e causa del nostro piacere e del nostro dolore, è là, che richiede di essere detta, allora il linguaggio è essenzialmente un'«esperienza di riferimento». Più precisamente, il linguaggio è la designazione di uno degli aspetti dell'«immediato volto della vita» mercé un altro qualsiasi di tali aspetti (Estetica, p. 125). In tal senso, il linguaggio è indifferente al «contenuto d'esperienza» di cui si serve per designare, ma tutto concentrato invece sul «rapporto di designazione» stesso. Arbitrarietà del linguaggio, dunque, in quanto rapporto di designazione (Estetica, p. 125 e p. 179). Ma anche storicità del linguaggio, poiché esso persiste come un'abitudine in una più o meno vasta cerchia di uomini, i quali, quindi, reagiscono con un salutare spirito di conservazione ad ogni tentativo di innovazione rivoluzionaria (Estetica, p. 180). Tuttavia, la storicità del linguaggio non ci deve indurre ad accettare l'idea arcaica di una congruenza naturale del segno al significato, propria della mentalità primitiva (Estetica, p. 181). La costituzione del rapporto arbitrario di designazione è invece opera dell'«infinito ripetersi e rinnovarsi del colloquio umano» (Estetica, p. 181). Tutto ciò per Calogero è una conferma del carattere strumentale e comunicativo del linguaggio.
«Per questo aspetto, nulla di più prettamente strumentale, di più radicalmente subordinato alla sua capacità d'uso, del linguaggio. La sua bontà è tutta nella sua efficienza comunicativa: se con esso ci si intende, lo scopo è raggiunto; e quanto meglio ci si intende, tanto più esso è un bel linguaggio. Di qui il fatto che nell'uso, cioè nella più frequente o stabilizzata consuetudine dei parlanti sta il canone ultimo della funzionale correttezza di una lingua» (Estetica, p. 181).
A proposito del linguaggio come strumento di comunicazione, vedremo più sotto che sarà possibile enucleare in Calogero un significato più forte di tale principio, che ha rapporti più stretti con l'insieme della sua elaborazione filosofica. Intanto, rileviamo come in questa fase della sua elaborazione, che si attesta su una posizione di referenzialismo classico, la sua terminologia è ancora abbastanza rudimentale, come si può vedere da qualche passo dove il termine "segno" è usato come sinonimo di "significante", cioè è inteso come etichetta sonora o grafica del significato o cosa (Estetica, p. 125). Tuttavia, cessata l'urgenza di affermare contro Croce l'irriducibile presenza della realtà e la conseguente natura comunicativa del linguaggio, Calogero mostra di avere una concezione più scaltrita della natura del segno. Anche qui egli muove dal rifiuto dell'identificazione crociana di intuizione ed espressione, ma da una posizione, per così dire, semioticamente più interna, che prende in considerazione non più il rapporto tra intuizione ed espressione, bensì la natura stessa dell'espressione, cioè dei segni linguistici.
Calogero comincia dicendo ancora un pò genericamente che «ogni parola, ogni strumento semantico ha [Š] sempre due facce: quella immediatamente propria, e quella del contenuto mentale che il suo apparire deve presentare alla coscienza» (Estetica, p. 173). Ma poco più sotto chiarisce qual è l'effettiva natura delle «due facce» di ogni parola.
«Nessuno che sente dire "pane" vi sente soltanto due consonanti e due vocali, bensì sente insieme orientato il suo sguardo mentale, da quel contenuto fonetico, verso il diverso contenuto visivo costituito dall'immagine del pane» (Estetica, p. 173).
Da qui la conclusione che l'espressione, cioè il linguaggio, è
«non già un'intuizione, ma bensì un rapporto funzionale di due intuizioni, di cui l'una rinvia all'altra, cosicché l'una è segno e l'altra senso, l'una significante e l'altra significato» (Estetica, p. 174).
Come si vede, mentre nel momento più acceso della polemica anticrociana, il segno come etichetta veniva globalmente messo in corrispondenza con un significato o cosa, qui il rinvio semantico avviene fra due intuizioni, l'intuizione sonora, o significante, e l'intuizione eidetica o mentale, il significato. Quale sia la natura del «rapporto funzionale» che lega significante e significato, Calogero non lo dice. Resta il fatto che, spinto dalla polemica anticrociana, egli riesce a staccare il segno dall'ingenuo ancoraggio realistico, e a concepirlo come fenomeno strutturalmente duale e dalla natura interamente psichica.
In conclusione, ci si può chiedere perché da questa teoria del linguaggio così saussuriana non nasce una teoria del valore linguistico, come appunto in Saussure. Una risposta possibile è che Calogero non è Saussure. Un'altra possibile risposta, meno tautologica, può attenere alle matrici culturali che generano le elaborazioni rispettivamente di Calogero e di Saussure.
Come osservò R. Barthes (1973, p. 87), il modello di Saussure è la democrazia intesa come contratto sociale. Il contratto linguistico è omologo allora al contratto sociale, e funziona come il commercio, la moneta, il diritto, tutti sistemi in equilibrio dove si scambiano valori. Non è un caso, come ha mostrato J. Molino (1984), che i modelli dell'equilibrio economico elaborati da Walras e Pareto fossero un punto di riferimento per Saussure.
Quanto a Calogero, invece, abbiamo visto sopra che egli non si fida molto dell'idea di contratto, e rinvia tutto al principio dell'atto di volontà altruistico. Egli, perciò, non vede il linguaggio quando si è già fissato in un sistema linguistico, ma nel momento in cui un atto di volontà genera un'intenzione comunicativa. Ecco perché svilupperà piuttosto una teoria volontaristica del dialogo che una linguistica della lingua come sistema di valori.
Ritorno al dialogo
Dunque, saussurianamente, per Calogero il segno è un'entità psichica a due facce, cioè il rapporto funzionale di un'intuizione sonora e di un'intuizione eidetica. Questa nuova concezione del segno, emersa nella polemica anticrociana, dà i suoi frutti quando Calogero torna a trattare del rapporto tra la logica, la grammatica e il linguaggio.
Per Calogero, la logica come sillogistica non è altro che «linguaggio cristallizzato», «linguaggio ridotto ad immobile schema», «una raccolta di schemi verbali» (Estetica, p. 215). E quanto alla grammatica, le astratte strutture morfologiche non sono altro che «schemi di schemi, classi generalissime di atteggiamenti semantici» (Estetica, p. 219). Dunque, logica e grammatica «non sono entrambe se non schematizzazioni arbitrarie, compiute per questo o quello scopo pratico, dell'unica realtà vivente del linguaggio» (ibid.).
Ma, si chiede Calogero, in questo ridurre a schemi linguistici la logica, in questo negare il carattere di logicità agli schemi verbali, in altri termini, in questo richiamarsi alla «realtà vivente del linguaggio», così come faceva Croce, non c'è il rischio di aprire la via, assieme ad una concezione vitalistica del parlare, anche all'irrazionale? La garanzia contro questo rischio, secondo Calogero, sta sempre nella buona volontà d'intendere cose e persone (Estetica, p. 229). La serietà dell'attenzione critica, l'onestà della discussione, egli afferma in modo ancora sorprendentemente attuale, «non è questione di logica, bensì questione di pratico comportamento, faccenda morale: oggetto di quel particolare capitolo della filosofia della prassi, che è la morale del colloquio, l'etica del linguaggio» (Estetica, p. 231).
Ancora una volta, dunque, ed ora dopo il lungo intermezzo linguistico, torna a stringersi quel nodo di etica, logica, e linguistica che spiega come si instaura e funziona il dialogo, la cui forma più alta e compiuta è il «dialogo scientifico» (Estetica, p.198). Un tema, questo, che concorre a definire in maniera forte la sua concezione del linguaggio come strumento di comunicazione. Infatti, a differenza di quanto accade nella pratica dove domina l'«ideazione diretta» che fa a meno della mediazione dei segni, nel dialogo scientifico il linguaggio ci si presenta pienamente come «ideazione parlata», attraverso cui il colloquio avanza di termine in termine con un «processo di rinvio» semantico continuo, senza dover ritornare, se non in piccola parte, alle cose (Estetica, p. 198).
Queste ulteriori precisazioni di Calogero danno un significato particolare alla sua definizione del linguaggio come strumento di comunicazione. Dietro non c'è una metafora ingegneristica, secondo la quale la comunicazione linguistica è la trasmissione dal parlante all'ascoltatore di unità già date di informazione, ma piuttosto una metafora retorico-giudiziaria, secondo la quale comunicare è come istruire una causa . In altri termini, nella concezione di Calogero la comunicazione linguistica è l'ideazione pubblica, cioè secondo procedure intersoggettivamente controllabili, di contenuti discorsivi individuali.
LE TRASFORMAZIONI DISCORSIVE DI JEAN PIAGET
Come abbiamo visto prima, l'affermazione chiave di tutta la teoria dell'interpretazione linguistica di Calogero è in quella frase sulla morale che fonda la logica, piuttosto che il contrario. Rileggiamola.
«Non è la logica che sorregge la morale, ma al contrario la morale che rende possibile la logica, in quanto particolare etica della discussione» (Etica, p. 160).
Un'affermazione simile si ritrova in Piaget, al quale abbiamo accenato all'inizio, e del quale torniamo ad occuparci in chiusura del nostro discorso. Secondo Piaget,
«la logica è una morale del pensiero, come la morale è una logica dell'azione» (Il giudizio morale nel fanciullo, p. 328).
Come si vede, sia nell'uno che nell'altro autore, gli elementi sono gli stessi: l'azione, la morale, la logica, la discussione. Nella formula di Piaget, è vero, la discussione non appare, così come, d'altronde, in quella di Calogero non c'è l'azione. Ma in Calogero troviamo, come elemento ultimo, un rinvio costante, anche se generico, al mondo della prassi, e in Piaget, il pensiero logico e l'azione buona non si instaurano senza che il confronto fisico e la disputa non cedano il passo alla discussione, intesa nel senso di Calogero. E ciò sia sul piano psicogenetico, che su quello sociogenetico.
Se ci accostiamo ora a Piaget, è perché siamo convinti che il suo approccio genetico ci possa aiutare a comprendere meglio un passaggio che in Calogero è quanto meno ellittico. Da dove viene la buona volontà d'intendere? La risposta di Calogero è che viene dall'esempio, dal buon esempio. L'abbiamo visto, quella che egli ci offre, è una morale eroica, ma dalle conseguenze non tutte desiderabili. Scomparsa la buona volontà, infatti, non resta niente a questo mondo, non c'è nessun sistema di regole intersoggettive che possa ovviare a individuali cattive volontà, o a momantenee eclissi della buona volontà.
Con Piaget, allora, vogliamo capire meglio il momento genetico della morale, e quindi dell'etica della discussione. Vogliamo capire se è possibile recuperare un qualche livello intersoggettivo, oltre la volatilità della buona volontà d'intendere.
Il sentimento evolutivo del rispetto
Piaget studia la morale nel bambino, ma la sua ambizione non così tanto nascosta è di mostrare che ciò che egli trova nel fanciullo, vale anche per l'adulto. Egli mira a fare, dunque, una etica sperimentale. Il quadro che esce fuori dall'insieme delle sue osservazioni, si può compendiare come segue.
Durante i primi anni di vita del bambino, in sovrapposizione all'originario bisogno di reciproco affetto - che Piaget, pervenendo ad un'intuizione già espressa da Kant nell'Antropologia pragmatica , concepisce come la radice affettiva profonda della nozione di bene morale - la costrizione anche lieve degli adulti genera una cristallizzazione di sentimenti di dovere la cui presa di coscienza, al momento dell'apparizione del linguaggio, avviene in termini di realismo morale teorico. Questa "formazione discorsiva" costituisce per un lungo tratto la coscienza morale del bambino, almeno sino a quando, grazie ad un'ulteriore ricostruzione, non sarà colmato il ritardo tra la pratica ormai cooperatoria e la coscienza teorica ancora tutta impregnata di realismo morale. Nell'evoluzione psicogenetica, vi sono perciò secondo Piaget due fasi. Nella prima si ha un'appropriazione puramente verbale delle norme così come vengono ricevute dall'esterno. Nella seconda vi è una ricostruzione discorsiva dei principi già contenuti nell'azione, che tende a recuperare, in modo normativo e stabile, quel bisogno di reciproco affetto che permaneva in uno stato spontaneo e labile.
Ora, il passaggio da una fase all'altra dipende dalla trasformazione di un sentimento particolare, il sentimento di rispetto. Sulla scorta di teorizzazioni che circolavano nel suo ambiente di formazione, mi riferisco, in particolare, al filosofo e psicologo svizzero Pierre Bovet, del quale mi sono occupato in un lavoro precedente (Aqueci, 1989), Piaget concepisce classicamente il rispetto come un sentimento misto di amore, ammirazione e timore. Di suo, però, vi introduce una dimensione evolutiva, che tiene conto delle trasformazioni cognitive ed affettive che intervengono nel corso dei processi psicogenetici. È per questo che egli parla di passaggio dal rispetto unilaterale, o monologico, al rispetto reciproco, o dialogico. Nella fase caratterizzata dal rispetto unilaterale, si potrebbe pensare che il discorso normativo "passi" solo perché chi lo tiene è investito d'autorità. In effetti, spiega Piaget, le norme si instaurano perché chi le pone è anche oggetto di ammirazione e timore da parte di chi le riceve. Nella fase, invece, caratterizzata, dal rispetto reciproco, il discorso normativo risulta da una permanente negoziazione tra soggetti tendenzialmente eguali.
Le trasformazioni del rispetto
Benché quanto precede sia una sintesi assai sommaria di una elaborazione che richiederebbe una presentazione molto più accurata, credo che siamo ugualmente in grado di trarre qualche conclusione riguardo al nostro confronto tra Calogero e Piaget.
Una prima conclusione è che il rispetto ci permette di superare quella labilità intersoggettiva che invece l'esempio comporta. L'esempio ci propone una morale fondata sulla buona volontà d'intendere, ma paradossalmente muta. Con l'esempio, infatti, la morale si apprende per visione diretta, così come il garzone apprende l'arte dal maestro artigiano. Ma l'osservazione empirica ci dice che la morale ha anche tutto un lato verbale per nulla secondario, che è fatto di ordini e imposizioni, così come di discussioni e negoziazioni. Ora, la morale del rispetto non esclude l'esempio, ma lo ingloba nella più generale trama discorsiva della morale, nella quale la buona volontà d'intendere si cristallizza poi in una dimensione per così dire intersoggettiva (i sistemi di regole).
Una seconda conclusione che si può tirare per il confronto tra Calogero e Piaget, è che il dialogo ci appare come il vertice, sempre mobile nel tempo e nello spazio, di un processo evolutivo. La sua evoluzione è legata alle trasformazioni cognitive e affettive del sentimento di rispetto che Piaget descrive soprattutto da un punto di vista psicogenetico, ma che non sarebbe difficile ritrovare nelle grandi o piccole evoluzioni storiche ed attuali che segnano il sistema sociale.
Certo, si potrebbe obiettare che tali trasformazioni, così come conducono verso prospettive dialogiche, possono anche condurre verso esiti di corruzione e di decadenza. Non è per caso che nel romanzo di Turgeniev, Padri e figli, uno dei testi ai quali si fa risalire la nascita del nichilismo contemporaneo, la mancanza di rispetto è biasimata o rivendicata, a seconda dei punti di vista, come la causa della «crisi dei valori». Ma ciò che Piaget sembra suggerirci, è che le trasformazioni del rispetto sono una sfida permanente dell'evoluzione socio-culturale: esse non aprono la via solo alla distruzione nichilista, ma anche alla costruzione, certamente sempre rischiosa, di nuovi discorsi e nuove interpretazioni.
SUGGESTIONI PER UNA SEMIOETICA
Nell'ambito di un progetto di «etosemiotica», è stato osservato che il riconoscimento dell'Altro ci è imposto dalla situazione odierna di homo homini lupus nella quale viviamo. È la paura che ci deve imporre di riconoscere l'Altro da noi, perché tanto più lo escludiamo, tanto più ci fa paura (Ponzio, 1994, p. 314).
Non vogliamo disconoscere il valore di tali enunciazioni, ma ci pare che esse non colgano la novità della condizione dell'uomo contemporaneo. Lottando contro paure ancestrali (tra cui, quella dell'Altro da noi) e vecchi e nuovi oscurantismi, pur tra errori e cadute immani, l'uomo contemporaneo si trova, forse per la prima volta nella storia della specie umana, nella condizione di poter accettare serenamente la propria finitezza e il rischio che è ad essa connessa. Da questo differente assunto, sul quale qui non argomento ulteriormente, derivano alcuni punti per una possibile semio-etica che vorrei molto schematicamente così enumerare.
F. Aqueci, La nozione kantiana di rispetto da Bovet a Piaget, in «Nuovi Annali della Facoltà di Magistero dell'Università di Messina», 7, 1989, pp. 605-621
R. Barthes, Saussure, le signe, la démocratie, in «Le discours social», nn. 3-4, aprile 1973, pp. 84-87
J. Bentham, Il libro dei sofismi, (1824), Roma, Editori Riuniti, 1981, tr. e cura di Lia Formigari
G. Calogero, Lezioni di Filosofia, I: Logica, (1948),Torino, Einaudi, 1960
G. Calogero, Lezioni di Filosofia, II: Etica, (1946), Torino, Einaudi, 1960
G. Calogero, Lezioni di Filosofia, III: Estetica, (1947), Torino, Einaudi, 1960
G. Calogero, Logo e dialogo, Milano, Edizioni di Comunità, 1950
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