Pubblicato in "Segno", nn. 194-5, aprile-maggio 1998, pp. 51-64. Una versione differente, dal titolo Vailati, il linguaggio, e il valore civile del retto ragionare, è apparsa in AA.VV., Lezioni su Vailati, dispensa curata dal Centro Studi Giovanni Vailati, Crema, febbraio 1998.
Francesco Aqueci
Una semioetica tra Vailati e Gramsci
Una lezione da riprendere
Nella sua ricostruzione della cultura italiana dell'età unitaria, ormai di qualche decennio fa ma ancor oggi valida, Alberto Asor Rosa assegnava Vailati a «quella schiera internazionale di studiosi», di cui fecero parte filosofi come Frege, Russell o Wittgenstein, solo per nominare i più noti, che si impegnarono nella ricerca di strumenti analitici, di natura linguistica e cognitiva, atti a fornirci una conoscenza scientificamente fondata dei procedimenti logici dell'uomo (1975: 1155).
Si tratta di un giudizio condivisibile, poiché Giovanni Vailati, nato a Crema nel 1863 e morto a Roma nel 1909, fu la sola voce italiana, e comunque la più matura, nel concerto internazionale della allora nascente filosofia analitica del linguaggio. Tuttavia, in quell'assegnare Vailati ad una «schiera internazionale di studiosi», c'è come un implicito giudizio negativo sul carattere cosmopolita del suo approccio filosofico. Se, insomma, Vailati, morto prematuramente nel pieno della sua attività filosofica, venne, come gli accadde, presto dimenticato, non fu solo perché non poté portare a sintesi, come pure avrebbe voluto (Epistolario: 496), tutto quello che, con saggi e recensioni varie, aveva analizzato, ma anche perché la sua filosofia mancava di radici, o ne aveva di troppo esili, nella cultura nazionale. E quale miglior controesempio non costituiva, invece, Benedetto Croce, che tanto vi seppe aderire sino alle più intime fibre, da essere poi indicato come il papa laico degli intellettuali italiani?
Ora, non v'è dubbio che nel pensiero di Vailati, logico matematico e filosofo formatosi in quell'ambiente cattolico lombardo-veneto di cui, ad esempio, un Fogazzaro costituiva una figura eminente, ma che sviluppò poi un sobrio e rigoroso agnosticismo (alla fine della sua breve malattia, sul letto di morte, ringraziava le suore in lacrime che l'assistevano, ma rifiutava con serena fermezza ogni conforto religioso), non v'è dubbio, dicevo, che nel suo pensiero v'è qualcosa di slegato rispetto alla realtà italiana del suo tempo, ma è qualcosa credo da attribuire più che al cosmopolitismo del suo modo di filosofare, piuttosto al suo carattere anticipatore e precocemente moderno. In un'Italia insofferente del giolittismo e pronta di lì a poco a infiammarsi di bellicismo nazionalista, scarsa o nessuna eco poteva avere un punto di vista secondo il quale
«il vero primum mobile dell'avanzamento della società sta nel graduale sviluppo in tutte le classi della società (e specialmente, com'è naturale, nelle classi meglio educate) di un sentimento sempre più elevato dei doveri di tutti verso ciascuno e di ciascuno verso tutti, nella sempre crescente esigenza di equità nei rapporti tra uomini e nella ripugnanza sempre maggiore per tutto ciò che è fonte di sofferenze umane» (Scritti: 42).
Tuttavia, se, all'inizio del secolo, quest'appello alla reciprocità morale e al principio di benevolenza nei rapporti sociali, se questo richiamo al senso di responsabilità delle «classi meglio educate», poteva apparire astratto, e tanto più astratto perché affidato ad una filosofia interessata più a scoprire i procedimenti di pensiero dell'uomo, che a imporgli dei sistemi predefiniti di pensiero ‹ oggi invece, per le mutate condizioni culturali e più largamente civili dell'Italia di fine secolo, quello stesso appello appare dotato di una sua cogente concretezza. È, insomma, una lezione che può essere ripresa, e, credo, anche nei suoi aspetti più tecnici. È quanto mi propongo di fare in questo articolo, presentando alcuni degli strumenti analitici che Vailati sviluppò nel suo studio scientifico dei procedimenti logici dell'uomo. Uno studio dove la convinzione 'tecnica' che il linguaggio naturale va 'curato' dai suoi 'mali' logici, si ravviva dentro una cornice discreta ma solida di consapevolezza etica e di impegno civile, ciò che consente in modo non artificiale di collegare il 'riformismo logico' di Vailati a quel 'riformismo intellettuale e morale' tematizzato da un altro grande italiano del '900, Antonio Gramsci. Un collegamento non artificiale, come cercherò di mostrare nel corso della mia esposizione, anche perché lo stesso Gramsci, nelle sue riflessioni in carcere, rifletté sull'esperienza filosofica dei vailatiani, da lui individuati come i «pragmatisti».
Dunque, per Vailati, il linguaggio naturale va 'curato' dai suoi 'mali' logici. Su questo motivo di fondo della sua filosofia, Vailati, scrittore non sistematico per eccellenza, operò poi tante variazioni che, complice come già detto la morte precoce, non poté orchestrare in un unico spartito. Nella lettura che propongo qui dei suoi scritti e delle sue lettere (almeno, quelle sinora ritrovate e pubblicate), credo di aver individuato almeno otto di queste variazioni, ciascuna delle quali corrisponderà ad un punto della mia trattazione.
1. La «formula linguistica» del «riformismo logico»
Uno dei temi che più interessano Vailati è quello concernente gli abusi del linguaggio e i mezzi di rimediarvi. In risposta ad una lettera dell'amico Giovanni Vacca, che gli riferisce di sue ricerche in proposito, scrive:
«E' difficile trovare un soggetto che mi interessi di più tra tutti quelli dei quali si occupano ordinariamente i "filosofi"; ti dirò anzi che per me il criterio più pratico, non solo per distinguere, ma anche per graduare il valore di questi ultimi (dal punto di vista logico), sarebbe quello di disporli nell'ordine indicato dalla loro maggiore o minore preoccupazione per questioni di tal genere, o anche dal maggior o minor posto che nei loro scritti occupa la trattazione delle medesime. Se provi a sostituire nella suddetta formula dei valori speciali (per esempio, Leibniz o AristoteleŠ o Spinoza o Kant, ecc.), vedrai che essa dà dei risultati abbastanza soddisfacenti e facilmente verificabili» (Epistolario: 180).
Come si vede, con la sua «formula» Vailati non intende giudicare i filosofi in base al loro interesse per le questioni linguistiche in generale, ma vuole piuttosto selezionare quelli che più si sono accostati al linguaggio «dal punto di vista logico», cioè dal punto di vista della cura logica cui sottoporre gli usi linguistici, come si può evincere da quest' altra lettera a Giovanni Vacca, dove Vailati scrive:
«Ciò che mi dici a proposito del James e delle imperfezioni del linguaggio comune, esigerebbe una discussione nella quale probabilmente io mi troverei a difendere il suddetto linguaggio come un'istituzione, che (come quella della proprietà) è piuttosto "da riformare" che da abolire (anche in matematica). Io credo anzi che uno dei migliori frutti dei progressi del simbolismo logico, sia quello di mettere a nudo le magagne del linguaggio ordinario, mostrando in che direzione si dovrebbe provvedere a migliorarlo e a sanarlo (precisamente como il socialismo mette a nudo i difetti dell'ordine sociale presente)» (Epistolario: 174).
All'epoca di Vailati, questo riformismo logico è condiviso, ad esempio, da un Gottlob Frege, fra i fondatori della filosofia analitica del linguaggio. Nell'introduzione all'«ideografia», lo strumento logico per l'analisi linguistica da lui escogitato, Frege infatti scrive:
«Se è compito della filosofia spezzare il dominio della parola sullo spirito umano, svelando gli inganni che, nell'ambito delle relazioni concettuali, traggono origine, spesso quasi inevitabilmente, dall'uso della lingua e liberare così il pensiero da quanto di difettoso gli proviene soltanto dalla natura dei mezzi linguistici, ebbene, la mia ideografia, ulteriormente perfezionata a questo scopo, potrà diventare per i filosofi un utile strumento» (Frege, 1879 [1965]: 106).
Come si vede, a differenza di Frege, Vailati è per un graduale programma «riformista», una terapia «migliorista», diremmo oggi, tesa più a sanare che a spezzare. Lo strumento, però, è sempre quello, il simbolismo logico, messo a disposizione dalla allora nascente logica formale.
D'altra parte, tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, l'idea di sottoporre ad una terapia logica il linguaggio non fu solo di Frege o di Vailati. Contemporaneamente, o appena qualche anno dopo, essa fu sostenuta anche da filosofi come Moore e Russell, o da Wittgenstein, il filosofo austro-inglese che, a scopo terapeutico, mirava a riportare l'uso di ogni parola all'interno del suo proprio «gioco linguistico». Tale idea, poi, divenne il programma di quel movimento che, nato a Vienna, negli anni Venti, si diffuse in Europa sotto il nome di «neopositivismo», e che, oltrepassato l'Atlantico, si ricongiunse con il pragmatismo di Peirce e James (lo stesso che Vailati cita nel brano di lettera di cui poco sopra), una rivoluzione di pensiero che lì aveva autonomamente avuto luogo tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, e che si caratterizzò, fra l'altro, per una concezione «strumentalista» delle teorie scientifiche (una teoria scientifica vale non per la verità che afferma, ma per l'essere un utile strumento nel perseguire uno scopo razionale). È così che si costituì e prosperò la filosofia analitica del linguaggio, che con Quine, negli anni cinquanta e sessanta, e Davidson e Rorty giunge sino ai nostri giorni.
A fronte di questa imponente tradizione di pensiero, mi pare opportuno introdurre un altro punto di vista sul problema degli «errori di linguaggio», giustificato dal fatto che chi lo sostiene si riferisce, come vedremo, in modo indiretto ma esplicito, a Vailati. Parlo di Antonio Gramsci, che in un brano dei Quaderni del carcere scrive:
«Pare che si possa dire che "linguaggio" è essenzialmente un nome collettivo, che non presuppone una cosa "unica" né nel tempo né nello spazio. Linguaggio significa anche cultura e filosofia (sia pure nel grado di senso comune) e pertanto il fatto "linguaggio" è in realtà una molteplicità di fatti più o meno coerenti organicamente e coordinati: al limite si può dire che ogni essere parlante ha un proprio linguaggio personale, cioè un proprio modo di pensare e di sentire. La cultura, nei suoi vari gradi, unifica una maggiore o minore quantità di individui in strati numerosi, più o meno a contatto espressivo, che si capiscono tra loro in gradi diversi ecc. Sono queste differenze e distinzioni storico-sociali che si riflettono nel linguaggio comune e producono quegli "ostacoli" e quelle "cause di errori" di cui i pragmatisti hanno trattato» (Quaderni del carcere: II, 1330).
Se si considera che, nella fase più intensa della sua riflessione filosofica, Vailati, assieme ad amici come Prezzolini, Papini, Calderoni, si definì, sulla scia dei sopra richiamati Peirce e James, un «pragmatista», è evidente che Gramsci allude proprio a lui e alla sua cerchia di amici, la cui predicazione filosofica da giovane poté seguire su riviste come il «Leonardo» o la «Voce». Ora, ciò che ci interessa è il differente modo che Gramsci ha di concepire gli ostacoli e le cause di errori linguistici. Per Vailati, l'errore linguistico è una conseguenza del rapporto particolare tra ragionamento e linguaggio. Ciò appare molto bene da un brano di una lettera a Giovanni Papini, che vale la pena di leggere per esteso:
«Che cosa sono infatti gli errori di linguaggio, se non errori di ragionamento provocati dall'imperfezione del linguaggio, e che cosa sono le imperfezioni del linguaggio, se non quelle qualità del linguaggio che favoriscono il nostro cadere in errori di ragionamento? [...] Le parole non sono solamente uno strumento per impoverire la realtà (cioè per astrarre da certe qualità di essa e concentrare la nostra attenzione sulle rimanenti), ma anche un mezzo per descrivere, per classificare, per paragonare, per distinguere, per indurre, per ridurre il ragionamento a schemi quasi automatici, etc., e per ciascuna di queste funzioni il linguaggio è atto a servire nello stesso tempo come organo di ricerca e come sorgente di illusioni, che debbono ben chiamarsi (come le altre) errori di linguaggio, in quanto col migliorare il linguaggio si potrebbe riuscire a renderli meno frequenti e meno gravi» (Epistolario: 342-3).
Dunque, in Vailati, dietro il linguaggio ci sta il ragionamento dell'individuo che formula concetti. Il linguaggio è lo strumento di ricerca dell'attività di pensiero, e in questa funzione, per la sua stessa natura, è anche sorgente di illusioni, quindi di errori. Differentemente, per Gramsci, l'errore linguistico è una conseguenza della stratificazione storico-sociale, un ostacolo alla comprensione causato da quelle «differenze e distinzioni storico-sociali» che si riflettono nel linguaggio. In Gramsci, dietro il linguaggio ci sta la cultura, cioè il pensiero stratificato di una collettività.
Da questi differenti punti di vista conseguono differenti strategie d'intervento. Per Vailati, il linguaggio va sottoposto ad una terapia logica, per permettere all'individuo, filosofo scienziato o parlante ordinario, di formulare correttamente i concetti che vuole esprimere. Per Gramsci, invece, come si può capire dalla lettura di tutti i Quaderni, la 'guarigione' del linguaggio, cioè il superamento dei blocchi della comunicazione, è una conseguenza di quella speciale 'terapia' che è la «riforma intellettuale e morale», cui va sottoposta la cultura dell'intera collettività.
Si tratta forse di due prospettive che si escludono l'una con l'altra? Tornerò su questo interrogativo a conclusione del nostro discorso.
2. Una semiotica ante-litteram
L'esigenza di una semiotica, di una scienza generale dei segni, è in incubazione e matura tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo con apporti dal versante filosofico (Peirce), linguistico (Saussure), filosofico-letterario (Ogden e Richards), logico-analitico (Morris). Ora, è degno di nota il fatto che Vailati, già in uno scritto del 1908, La Grammatica dell'Algebra, si ponga il problema tipicamente semiotico di studiare tutti i sistemi di segni, senza distinzione tra "naturali" e "artificiali". Infatti, volendo difendere il suo diritto ad analizzare le analogie tra la grammatica dell'algebra e la grammatica del linguaggio ordinario, afferma che non vale l'obiezione che per l'algebra
«si tratta di sistemi di segni 'artificiali', scelti e costruiti deliberatamente in vista degli scopi ai quali devono servire, e il cui sviluppo non è oggetto a leggi o uniformità del genere di quelle che lo studio comparato permette di riconoscere e di formulare per i linguaggi 'naturali'» (Scritti: 888).
A questa distinzione degli stessi filologi, continua Vailati, non può essere attribuito
«alcun senso preciso e scientifico, quando essi ammettono che nella formazione e nello sviluppo di qualsiasi linguaggio, per quanto 'naturale' e non colto, una parte non trascurabile è pur sempre da attribuire ai fattori volontari e individuali che ne determinano i successivi adattamenti alla sua funzione di strumento per esprimere e comunicare determinati sentimenti e idee» (ibidem).
Inoltre, conclude Vailati, la glottologia che studia «i 'gerghi' propri delle classi piu infime della società», perchè dovrebbe escludere dal suo campo di studio «i 'gerghi' ideografici, propri ai cultori delle più progredite tra le scienze» (Scritti: 889)?
Da dove derivi questa precoce sensibilità semiotica di Vailati è un problema cui qui possiamo solo accennare. Probabilmente influì su di lui il dibattito interno alla sua disciplina, la logica matematica. Infatti, da Frege al matematico Giuseppe Peano, maestro di Vailati, circola l'idea leibniziana di una scrittura universale con cui, utilizzando solo categorie logiche, si possano esprimere tutti i pensieri umani in modo chiaro e preciso. Rispetto a quest'idea, Vailati si colloca in una posizione originale. Come è stato chiarito, infatti, egli è interessato a garantire tanto un'apertura del linguaggio scientifico all'esperienza, quanto un maggior rigore al linguaggio comune (Piersanti, 1997). Egli, perciò, da un lato, prende le distanze dal riduzionismo logico del suo maestro Peano; dall'altro, si accosta alle scienze linguistiche del suo tempo, la filologia o glottologia o linguistica storica, come variamente all'epoca si denominavano, per comprendere meglio il funzionamento del linguaggio ordinario. Questa posizione transdisciplinare spiega, allora, quella sensibilità semiotica così precoce sul corso del pensiero linguistico del Novecento.
3. Il «linguaggio-macchina»
Questo posizione transdisciplinare è all'origine anche di un'interessante definizione di linguaggio che Vailati avanza in una lettera al solito Vacca. Si tratta di una lettera che altri hanno citato per quanto Vailati dice a proposito della routine come ostacolo al progredire delle scienze, ma mai, a mia conoscenza, è stato sottolineato ciò che egli trae da tale critica a proposito del linguaggio. Scrive Vailati:
«Nel caso delle scienze, ciò che contribuisce ad attribuire un ingiusto prestigio alla specializzazione è il fatto che si attribuisce a merito dello specialista ogni risultato che egli ottiene applicando processi o metodi, la cui invenzione spetta a dei non specialisti... morti da secoli; allo stesso modo come si considera come prodotto del lavoro di un operaio tutto il risultato che egli ottiene con la sua abilità nell'adoperare macchine che egli non sarebbe certo stato in grado né di inventare e neppure di costruire. Tra queste macchine, nel caso nostro la più importante è quella che consiste nel Linguaggio e nei mezzi che esso mette a disposizione per produrre a buon mercato ciò che, senza di essi, non potrebbe essere prodotto che da un numero eccezionalmente piccolo di persone d'ingegno superiore» (Epistolario: 207).
Ciò che Vailati vuol mettere qui in evidenza non è tanto, mi pare, la funzione dell'abitudine nel linguaggio, quanto il ruolo che svolge l'ingegno nella costruzione di quel particolare strumento che è il linguaggio. In altri termini, egli mira a mettere in evidenza il contenuto cognitivo del linguaggio, cioè quel tipo di conoscenza che, ai nostri giorni, un linguista come Noam Chomsky chiamerebbe la «conoscenza linguistica». Questa conoscenza, per Vailati, non ha 'fondamento', nel senso che
«[...] per il solo fatto di parlare una data lingua, ci troviamo indotti, o costretti, ad accettare una quantità di classificazioni e di distinzioni che nessuno di noi ha contribuito a creare, e di cui saremmo imbarazzati se ci si chiedesse di indicare la ragione o il 'fondamento'» (Scritti: 895).
Con il che Vailati non vuole affermare che la lingua che parliamo determina il nostro modo di pensare, come poi un linguista come Whorf sosterrà, ma piuttosto che parlare una lingua significa utilizzare uno strumento la cui ideazione è opera anonima dell'intera comunità linguistica. Tuttavia, il linguaggio non è sempre una conoscenza senza soggetto. Sostiene infatti Vailati che
«uno dei caratteri più ovvi che distinguono il linguaggio tecnico scientifico dal linguaggio ordinario, e in generale i linguaggi evoluti dai linguaggi primitivi, mi sembra consistere nella maggiore difficoltà colla quale in questi ultimi si può procedere alla determinazione esatta del significato delle parole per mezzo di definizioni, cioè per mezzo di altre parole che servono in certo modo a decomporre tale significato nei singoli elementi che lo costituiscuno» (Scritti: 205).
In altri termini, con la definizione, che è lo strumento principe di quel riformismo logico cui Vailati vuole sottoporre il linguaggio, usciamo dal «linguaggio-macchina» per avvicinarci alle teorie, cioè a quegli organismi logico-linguistici, tipici della scienza moderna, il cui carattere non è di essere specchi della realtà (positivismo ingenuo), ma piuttosto degli strumenti
«la cui efficacia e potenza è strettamente connessa alla loro agilità, all'assenza di ingombri, d'impacci ai loro movimenti, al loro somigliare piuttosto a dei leoni o delle tigri che non a degli ippopotami o dei mastodonti» (Scritti: 694).
Dunque, la scienza, accusata spesso di espropriare i diritti del soggetto, appare in Vailati come il luogo dove il soggetto trionfa. Un soggetto, certo, che sottopone le proprie operazioni logico-linguistiche al controllo intersoggettivo della comunità scientifica. Il luogo, invece, in cui il soggetto si dissolve nell'anonimato della creazione collettiva, è proprio il «linguaggio-macchina» ordinario, spesso romanticamente esaltato come il luogo d'elezione della creatività.
4. Abbasso la grammatica!
La filosofia paludata ha sempre più o meno velatamente rimproverato a Vailati di essersi accompagnato a degli 'scapestrati' come Giuseppe Prezzolini o Giovanni Papini. Ma, da un lato, il dialogo con costoro era per Vailati fecondo; dall'altro, egli sapeva loro resistere, quando i loro punti di vista si facevano estremi o strampalati. È il caso dello scambio di idee con Papini sul ruolo giocato dal simbolismo nella formazione del pensiero. All'amico che gli esprime l'opinione che un giorno la telepatia possa sostituirsi al linguaggio come mezzo di comunicazione del pensiero, Vailati risponde che a lui ciò pare molto improbabile, poiché
«anche il nostro pensiero stesso [è] fatto in gran parte di parole. Noi parliamo dentro di noi assai prima di parlare agli altri e tutti i difetti della parola esteriore si riflettono e reagiscono inevitabilmente nel nostro modo di vedere, anche prima che noi lo esprimiamo agli altri con le parole materiali» (Epistolario: 346).
Quest'accenno è sicuramente generico, se si tiene conto di quanto poi i psicolinguisti (un nome per tutti: Vygotsky) diranno, nel corso del Novecento, circa il linguaggio endofasico, assai meno legato alle parole di quanto Vailati creda. Ma è il prosieguo della lettera a Papini che presenta un certo interesse, laddove Vailati osserva che
«il modo ordinario nel quale si presentano le comunicazioni telepatiche, mostra che in esse il simbolismo e l'uso di segni rappresentativi (metafore, associazioni di contiguità, ecc.) predominano in grado ancor più eminente che non nel linguaggio e nei mezzi più comuni di trasmissione e descrizione del pensiero e degli stati d'animo» (Epistolario: 346-7).
In sostanza, dice Vailati al suo amico scapestrato che vuole portarlo su una cattiva strada, si può anche pensare di abolire il linguaggio, ma non il simbolismo nella formazione e nella trasmissione del pensiero. La telepatia, perciò, non sarà mai una pratica angelica di comunicazione, ma solo un altro mezzo simbolico di tramissione del pensiero. E se si pensa a quanto, nel corso del Novecento, si dirà sul simbolismo nei suoi rapporti con il pensiero (un testo per tutti, La formazione del simbolo nel fanciullo di Jean Piaget), qui certo si conferma quel 'fiuto' semiotico di Vailati che gli permette di trattare anche di argomenti 'pericolosi', ma senza mai derogare da un abito di rigore scientifico.
Nel pensiero di Vailati è possibile trovare espresse, sempre in questo modo occasionale e non sistematico, spunti ed osservazioni che saranno poi ampiamente sviluppate dalla successiva riflessione linguistica. È il caso, per esempio, della critica della grammatica, con i risvolti di educazione linguistica che essa avrà, specialmente durante gli anni Sessanta e Settanta (un nome per tutti: Don Milani). Vailati, in un'altra lettera a Giovanni Papini, svolge questo tema nel modo originale che gli è proprio, di filosofo analitico in grado di apportare nuova luce nell'esame di fenomeni linguistici che i grammatici tendono con i loro schemi a impoverire. È il caso del tempo grammaticale presente, a proposito del quale Vailati contesta la teoria puntuale che i grammatici ne fanno.
«Noi ci illudiamo che quello che i grammatici chiamano "il tempo presente" non implichi altre considerazioni che quelle che si riferiscono al momento attuale (o tutt'al piu al passato). Nulla di più falso; infatti, quando diciamo che una data cosa è un mezzo per un dato fine, vogliamo dire non [solo] che essa ha o ha avuto capacità di farci raggiungere quel fine, ma anche che essa l'avrà. Così, per esempio, quando diciamo che il tale uomo è un imbecille, non vogliamo soltanto dire che esso ha fatto o fa, nell'istante in cui parliamo, degli atti che giustificano tale appellativo, ma anche che noi abbiamo fiducia che continuerà a farne in avvenire; tanto è vero che se noi cessassimo di avere tale fiducia in un dato momento, noi cesseremmo, ipso facto, di dire che è un imbecille, nonostante che il suo passato e il suo presente rimanga ciò che era prima. Abbasso dunque la grammatica!» (Epistolario: 369).
5. Il «mondo di carta» delle opinioni
Un altro aspetto dell'universo verbale che a Vailati interessò moltissimo, è quello delle opinioni filosofiche morali politiche che gli uomini esprimono con i loro discorsi parlati o scritti. A proposito delle opinioni, il fondatore della scienza moderna, Galileo Galilei, aveva parlato di «mondo di carta», opponendolo al «mondo sensibile», solo oggetto di scienza. Vailati, con l'equilibrio storico che lo contraddistinse, considerava tale ripulsa una legittima difesa contro l'abuso dell'autorità in materia di scienza. Tuttavia, era anche teoricamente convinto che questo «mondo di carta» andasse indagato al pari del «mondo sensibile»:
«Le opinioni, siano esse vere o false, sono pure sempre dei fatti, e come tali meritano ed esigono di essere prese ad oggetto di indagine, di accertamento, di confronto, d'interpretazione, di spiegazione precisamente come qualunque altro ordine di fatti, e allo stesso scopo; allo scopo cioè di determinare per quanto ci è possibile, in mezzo alle loro varietà, alla lora complicazione, alle loro trasformazioni, gli elementi costanti, le uniformità, le leggi insomma da cui il loro succedere è regolato» (Sull'importanza delle ricerche relative alla storia delle scienze, in Scritti: 65).
Nella cultura italiana dell'inizio del Novecento, Vailati non fu il solo a concepire le opinioni come fatti degni di essere studiati. Il grande economista e sociologo Vilfredo Pareto, i cui rapporti con Vailati costituiscono un importante capitolo del dibattito culturale italiano di inizio secolo, era dello stesso avviso quando, nel suo Trattato di sociologia generale, che aveva l'ambizione di rifondare l'intera sociologia, scriveva:
«In una collettività data, hanno corso proposizioni descrittive, precettive, od altre; [Š] Tutte queste proposizioni e teorie sono fatti sperimentali, ove si considerino dall'esterno, senza indagare il merito intrinseco come nasce dalla fede, e come fatti sperimentali le dobbiamo considerare e studiare» (Trattato: § 7).
Non è il luogo qui di esaminare il problema delle possibili influenze reciproche tra Vailati e Pareto, argomento di studi classici (Bobbio, 1963) e di più recenti indagini (Bruni, 1997). Certo è che questi due testi evidenziano uno stretto accordo tra Vailati e Pareto. Dove invece l'opposizione tra i due sorge, è nel modo di valutare le «opinioni» (Vailati) o «proposizioni e teorie» (Pareto). Per Pareto, esse non hanno alcuna influenza sulla condotta umana, che è determinata da una «logica dei sentimenti» di cui l'individuo non ha alcuna padronanza. Per Vailati, invece, come dirà recensendo proprio una delle grandi opere di Pareto, I sistemi socialisti, la condotta umana è, sì, sempre condizionata da un sostrato di credenze ma, come è stato ottimamente osservato, essa sarà tanto più controllabile quanto più le credenze saranno conoscitivamente fondate e verificabili intersoggettivamente (Piersanti, 1997).
6. Una concezione contestualista del significato
Uno dei concetti fondamentali che linguisti e filosofi del linguaggio tentano di definire è quello di significato. La definizione di significato di Vailati risponde ai suoi interessi analitici e di teorico della scienza. Una definizione, per altro, che Valati non darà ex-cathedra, ma che può ricostruirsi leggendo assieme prese di posizione pubbliche con quanto gli capita di dire nei suoi ricchissimi rapporti epistolari. In questo caso, si tratta di una lettera a Lady Victoria Welby, la fondatrice, almeno dal lato anglossassone, poiché nella linguistica continentale il fondatore sarà Michel Brèal, della moderna semantica. Anche se altri lo hanno già fatto, è da sottolineare che, all'epoca, Vailati è l'unico italiano a conoscere e ad essere in contatto con questa importante studiosa. Scrive Vailati in questa lettera (cito la traduzione italiana):
«A me sembra che il problema del "significato" delle parole sia un caso particolare del più ampio problema relativo al significato delle proposizioni; determinare che cosa s'intende asserire, quando si assegna un nome a un dato oggetto, è un problema dello stesso genere di quello, di portata più generale, di determinare che cosa s'intende asserire, quando si enuncia una qualsiasi proposizione o formula verbale. Secondo la comune tesi sulla "definizione", soltanto le parole possono, e devono, essere definite; mi pare che in tal modo venga trascurata una classe molto importante di "definizioni". Intendo riferirmi alle definizioni di frasi, composte di parole che, di per sé, non hanno alcun significato. È possibile, ad esempio, determinare il significato di preposizioni come in, di, da ecc. (specie quando vengono usate in senso metaforico, come accade quasi sempre nelle discussioni metafisiche), senza definire o determinare il signficato delle proposizioni in cui esse sono introdotte, al fine di connettere altre parole? Si può attribuire significato a termini come essere, agire, produrre, rappresentare, manifestare, ecc., se non attribuendolo alle proposizioni in cui essi sono usati, in rapporto ad altre parole, che, a loro volta, non hanno forse significato, se non nel contesto della proposizione di cui fanno parte? Se tali frasi sono definite e il loro significato viene determinato in maniera univoca, l'ambiguità o perfino la mancanza di signficato delle parole che le compongono, non presenta difficoltà alcuna; al contrario, le nostre definizioni delle singole parole non recherebbero alcun risultato utile, se, grazie ad esse, non fossimo in grado di interpretare correttamente il significato delle proposizioni in cui dette parole si combinano» (Epistolario: 140).
Come si vede, Vailati arriva al problema del significato dal lato logico della definizione. Egli non è soddisfatto di come normalmente si usa questo importante strumento di disambiguazione linguistica. Ne propone perciò un uso 'allargato'. Di qui anche una concezione 'allargata' di significato, che viene a coincidere non più con la sostanza concettuale della singola parola, ma con le relazioni che le parole intrattengono nella frase l'una con l'altra.
Per inciso, notiamo che anche su questo punto vi è convergenza tra Frege e Vailati. Per Frege, infatti, esiste un principio di contestualità per il quale non bisogna mai chiedersi quale sia il significato di una parola isolata, ma solo nel contesto di una proposizione. Possiamo perciò chiamare la concezione del significato di Vailati come una concezione contestualista. Ma ciò che mi preme mettere in evidenza è il fatto che il significato così concepito diviene, in Vailati, un modello in miniatura del funzionamento della teoria scientifica. Infatti, egli riconosce che il vantaggio dell'uso del metodo deduttivo nella scienza consiste
«nel reciproco controllo che le proposizioni legate per mezzo della deduzione sono poste in grado di esercitare le une e sulle altre» (Scritti: 142).
E, in un saggio del 1907, dal titolo De quelques caractères du mouvement philosophique contemporain en Italie, dopo aver portato l'esempio della dipendenza reciproca del senso delle proposizioni che concorrono a costruire una teoria nei principi della meccanica moderna, conclude che
«c'est cet ensemble donc, et non pas les principes dont il se composa, que est capable d'avoir des conséquences vérifiables, et c'est seulement par rapport à cet ensemble qu'on peut parler du sens ou de la vérité de l'une ou de l'autre des propositions qui le constituent» (Scritti: 759).
Dunque, così come le singole parole prendono significato in connessione con le altre nell'insieme della frase, così pure le singole proposizioni hanno un significato non singolarmente prese, ma nell'insieme della teoria. Frase linguistica e teoria scientifica funzionano dunque allo stesso modo.
Una concezione simile, secondo la quale il linguaggio funziona come una teoria, sarà sostenuta, decenni dopo nel corso del Novecento, da W.O.Quine. Quine adotterà questa posizione per attaccare quello che egli chiama uno dei due dogmi dell'empirismo, cioè la distinzione, nata con Hume e Leibniz, tra proposizioni analitiche e proposizioni sintetiche (l'altro dogma è quello dell'accesso diretto alla realtà attraverso i sensi). Vailati non trarrà queste estreme conseguenze, ma si limiterà a denunciare il fatto che la mancanza di un qualche segno verbale per distinguere le enunciazioni analitiche da quelle sintetiche è fra le maggiori cause di errori di linguaggio (Scritti: 205-207). È un punto di vista che richiama quello espresso da Wittgenstein, qualche decennio dopo, circa la confusione categoriale tra proposizioni grammaticali e proposizioni empiriche come una delle principali cause di fraintendimento in filosofia.
Vailati ritornerà ancora sulla distinzione tra analitico e sintetico in una lettera al filosofo tedesco Franz Brentano, dove si interrogherà su quali siano le proposizioni che noi prendiamo come tipo della certezza più assoluta, se quelle, appunto, sintetiche, oppure quelle analitiche. Nel corso del Novecento, questo problema sarà poi molto dibattuto in filosofia analitica del linguaggio. Il punto di vista di Vailati è che le proposizioni analitiche sono le più assolutamente certe, ma solo nel senso che esse non affermano nulla sull'esperienza. Tuttavia, da buon pragmatista, egli pensa che le proposizioni analitiche sono utili strumenti di pensiero. Esse, infatti,
«servono a impedirci di essere incoerenti nell'uso del linguaggio, e costituiscono in certo modo dei recipienti opportuni per versarvi i fatti quando si presentano, o degli strumenti per classificarli e concatenarli in modo adatto a ricavarne delle conclusioni col minimo sovraccarico della memoria e con procedimenti quasi automatici» (Epistolario: 287-288).
7. Il significato nel campo teorico: un processo di astrazione tra soggetto e oggetti
Come abbiamo visto, Vailati si occupa del significato dal punto di vista del filosofo analitico e del teorico della scienza. Egli arriva così ad una concezione contestualista del significato, che potremmo chiamare anche 'olistica': è dal tutto della frase che traiamo il significato delle singole parole, ed è dal tutto della teoria che deriva, come è stato chiarito, non tanto la sua verificabilità empirica, quanto la sua capacità predittiva (Piersanti, 1997). Questa presa di distanza dal criterio di verificabilità empirica è un altro dei punti di distacco di Vailati dal positivismo ingenuo. Ma torniamo al problema del significato. Vailati non si sottrae al compito tradizionale di definire cos'è quell'entità 'altra' con cui mettiamo in corrispondenza un nome. Anche qui, egli affronta il problema dal punto di vista dello scienziato.
«Ogni qualvolta lo scienziato indica parecchi oggetti con uno stesso nome, egli asserisce, non solo che essi si rassomigliano, ma che essi si rassomigliano in qualche cosa, che essi hanno cioè dei determinati caratteri comuni, suscettibili di essere enumerati e designati a parte, e il cui insieme costituisce ciò che comunemente si chiama il 'significato' del nome considerato» (Scritti: 206).
Il significato è dunque il complesso di «determinati caratteri comuni» a parecchi oggetti. Ora, continua Vailati,
«quanto più numerosi sono i caratteri il cui possesso è richiesto perchè a un dato oggetto sia applicabile un dato nome, tanto più viene a restringersi la sfera d'applicazione di questo, mentre, al contrario, quanto più numerosi sono gli oggetti ai quali un dato nome è applicabile, tanto meno sarà significante il nome stesso, tanto minori informazioni cioè noi verremo a dare su un dato oggetto applicando ad esso un tale nome» (Scritti: 206).
Dunque, 1) il significato non è la messa in corrispondenza di un nome con un oggetto (nomenclaturismo ingenuo), ma è piuttosto il risultato di un processo di astrazione; 2) la capacità di significare di un nome è in funzione della maggiore o minore estensione del complesso di «determinati caratteri comuni». Come si vede, in questa concezione, il significato emerge dalle operazioni di astrazione dello scienziato posto di fronte ad un universo di oggetti.
8. Il significato nel campo pratico: un problema di interpretazione della volontà altrui
Ma il problema del signficato in Vailati, e siamo così alla conclusione del nostro discorso, non si esaurisce nel definire cos'è il significato nella scienza. Infatti, nella terza delle sue grandi prolusioni, egli distingue la specificità delle questioni relative al significato nel campo teorico rispetto a quello pratico. Nel campo pratico, egli dice,
«il significato si presenta sempre come intimamente connesso alle questioni di interpretazione della volontà altrui» (Scritti: 98).
Nel campo teorico, dunque, il significato emerge da una relazione tra il soggetto (lo scienziato) e un universo di oggetti. Nel campo pratico, invece, il significato emerge dalla relazione tra il soggetto e l'altro soggetto. Nel primo caso, sono in gioco i processi cognitivi del soggetto singolo nei suoi rapporti con gli oggetti. Nel secondo caso, invece, entrano in gioco quei fattori morali, giuridici, politici che sono normalmente coinvolti nell'interpretazione della volontà altrui.
Ora, è vero che questa consapevolezza del carattere semioetico del linguaggio nel campo pratico restò sempre marginale nella riflessione di Vailati. E appare appropriato dunque il giudizio di Mario Dal Pra quando dice che, sebbene a Vailati non mancasse la consapevolezza filosofica dei «problemi dell'uomo», cioè dei problemi propri dell'etica e della politica, egli non seppe aprirsi la via verso di essi (Dal Pra, 1971: L). È anche vero, tuttavia, che quella consapevolezza riverbera sulla sua concezione dei problemi propri del campo teorico. E ciò non solo per quanto egli testimoniò con la sua pratica di vita, dal dialogo filosofico scritto e orale, all'interesse costante e sentito per i problemi pedagogici e istituzionali della scuola, ma anche per quella concezione che traspare da tutta la sua opera, per la quale il buon ragionamento logico non dispiega i suoi effetti solo nel campo teorico, ma ha anche, sebbene indiretta, una valenza pratica, per cui il buon ragionare è anche il retto ragionare. Se non fosse così, del resto, perché insistere sull'incidenza positiva delle opinioni sulla condotta umana, quando esse diventano oggetto di dibattito e vengono sottoposte al controllo intersoggettivo? Tutto ciò non presuppone, forse, degli interlocutori che, assieme alla logica, rispettano anche, come avrebbe detto Guido Calogero, la «morale del corretto colloquio»? Insomma, se nella sua «formula linguistica» Leibniz è al primo posto, in una ipotetica «formula morale» sarebbe Kant ad ottenere il valore più alto.
Una sintesi possibile
A questo punto, possiamo ritornare all'interrogativo rimasto in sospeso, se cioè vi sia convergenza o meno tra il riformismo logico di Vailati e la riforma intellettuale e morale di Gramsci. È un tema, questo, che richiederebbe ben altre considerazioni di quante qui gliene possa dedicare. Rifacendomi ad un concetto centrale in Gramsci, quello di egemonia, dirò solo che per Gramsci l'egemonia è certamente lotta, presa d'atto dei rapporti di forza, ma mai riduzione della politica allo schema amico/nemico, come invece è per uno dei massimi teorici della politica del Novecento, Carl Schimtt. Inoltre, Gramsci, non solo da giovane, ma ancora in carcere, guarda alla divisione tra governati e governanti non come ad una struttura immodificabile della realtà, così come vuole un altro grande teorico della politica del Novecento, il già citato Vilfredo Pareto, ma si pone il problema del suo superamento, almeno come ideale regolativo (Tortorella, 1997a). In lui, insomma, l'ispirazione utopica, intesa appunto come ideale regolativo (Tortorella, 1997b), dalla giovanile militanza socialista all'originale marxismo della maturità, non va mai perduta. Se, d'altra parte, l'egemonia per Gramsci comporta, come è stato già da tempo notato (Mouffe, 1979), la rinuncia alla propria visione corporativa del mondo e la presa in conto degli interessi e delle tendenze dei gruppi su cui si intende esercitare l'egemonia, allora essa può essere vista anche come una forma, benché strategica, di decentramento del soggetto e di riconoscimento dell'altro. La riforma intellettuale e morale, dunque, pur con quel tanto di pedagogico che essa comporta, non è l'imposizione autoritaria o subdola (manipolazione ideologica) di determinati contenuti di valore, ma un processo formale che mira alla costruzione di una 'mente' sociale più mobile, astratta e universale. Ora, una tale mente non può darsi senza la contemporanea emergenza dell'individuo moralmente autonomo. E un tale individuo è un individuo sensibile alla disciplina intellettuale della logica, nel senso eticamente caratterizzato che abbiamo rinvenuto in Vailati. Vailati e Gramsci, allora, trovano una loro sintesi in un'affermazione che nessuno di loro ha enunciato, ma che descrive bene l'oggettivo convergere delle loro rispettive elaborazioni: «la logica è una morale del pensiero, come la morale è una logica dell'azione» (Jean Piaget).
Riferimenti bibliografici
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