Testo della lezione tenuta presso la Cattedra di Filosofia del linguaggio della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università della Calabria, il 19.1.2001, e pubblicato in «Bollettino Filosofico», Dipartimento di Filosofia dell'Università della Calabria, 16, 2000, pp. 301-317



Francesco Aqueci

Della Volpe, Scarpelli, Piaget. Temi e suggestioni per una semioetica (II)


SOMMARIO

Della Volpe: il nesso dialogico degli eterogenei - Scarpelli: la natura linguistica della morale -Piaget: una concezione affettiva e evolutiva del rispetto -Mayr: i prodromi evolutivi del rispetto- Lacan: il simbolico e il normativo- Dalla costrizione della lingua alla libertà del discorso - Note



Le linee lungo cui mi muoverò in questa conversazione fanno riferimento ad un progetto di ricerca enunciato in una analoga conversazione, tenuta quattro anni fa in questa stessa Università, e dedicata alla filosofia del linguaggio in Vailati, Calogero e Piaget [*]. Di quel progetto, sviluppato poi parzialmente negli anni successivi, e che, a mio rischio e pericolo, indicavo con il neologismo di "semioetica", intendo qui riprendere e approfondire due direttrici.
La prima è l'ancoraggio epistemologico della semioetica che, alla fine degli excursus in Vailati, Calogero e Piaget, fissavo in una concezione antimonista e produttiva della ragione.
La seconda è l'aspetto normativo del linguaggio esaminato in connessione con il tema della struttura morale del rispetto.
Scopo finale di questa ripresa è di vedere più a fondo nella nozione di dialogo che era al centro della già richiamata discussione di quattro anni fa.

Della Volpe: il nesso dialogico degli eterogenei ­ Quanto alla prima direttrice, discutendo della critica linguistica dell'argomentazione filosofica e scientifica in Vailati, notavo che il significato più profondo del pragmatismo cui Vailati approda, era il suo antimonismo, cioè il rifiuto della tendenza a generalizzare, a dissolvere le distinzioni, a ricercare in ogni cosa l'uno o il generale, spirito o materia che fosse.
Paragonandolo a quello di un Piaget, constatavo, però, che questo antimonismo, lasciava un po' delusi, poiché si limita a contrapporre alla tendenza generalizzatrice il mero criterio empirico della verificabilità degli enunciati e delle teorie.
L'antimonismo di Piaget, invece, appariva più interessante sia per i risultati cui perveniva (concezione non puramente sintattica della matematica, ecc.), sia perché, fuoriuscendo da impostazioni neopositivistiche, poneva esplicitamente al suo centro le trasformazioni che, tanto in ambito fisico, quanto in ambito logico-matematico, generano novità. Piaget stesso, però, si affrettava a porre un limite al suo antimonismo quando scriveva che il suo interesse era rivolto alle "trasformazioni che generano novità pur mantenendo al loro interno, e in modo inscindibile, certe costanti" [1].
La tensione tra stabilità e costanti nelle trasformazioni è ciò che mi ha indotto a riprendere questo punto per cercare di trovare un'ancoraggio epistemologico più soddisfacente. Non che questo ancoraggio sia stato trovato, poiché ancoraggi sicuri non ne esistono neanche per navi ben più robuste della semioetica, ma vorrei oggi tornare a discutere di questa tematica della ragione antimonista in un autore, sino a vent'anni fa famosissimo, oggi quasi dimenticato, che l'ha, per così dire, tessuta con il filo d'oro di una filosofia del linguaggio passata quasi inosservata, nascosta com'è rimasta, all'epoca, nelle pieghe di un discorso celebrato per altri aspetti, dall'interpretazione del marxismo ai canoni di un'estetica materialista.
L'autore cui mi riferisco è Galvano Della Volpe (1895-1968), aristocratico di nascita, gentiliano di formazione, poi marxista fra i maggiori, e dell'indirizzo non storicistico, autore di una Critica del gusto(1963), che con il suo ostico stile affascinò e tormentò intere generazioni di studenti.
Questa Critica del gusto, che fu l'opera che rese famoso il suo autore, suscitando le reazioni a mio avviso ingiustificatamente critiche, lo si può oggi ben dire, a distanza di quasi quarant'anni, di qualche linguista supercilioso, è tutta presa dall'allora incipiente vague semiotica. E ancora oggi, per chi la rilegga, con la sua attenzione per gli "specifici" dei generi artistici, risulta addirittura più attuale della semiologia di un R. Barthes, se si pensa all'odierna rivendicazione, per altro non sempre convincente, di una semiotica non puramente linguistica [2].
D'altra parte, la semiotica contemporanea, con la sua rinnovata attenzione per le "passioni", rimette in gioco problematiche filosofiche come il rapporto tra il sentimento e la ragione, la natura del dialogo, il riconoscimento dell'Altro e quindi il posto dell'etica nella riflessione sul linguaggio, tutti temi che, bisogna dire, la semiotica stessa affronta o riducendoli ad aspetti tecnici della natura dei segni, o con un discorso filosofico, per così dire, in tono minore e occasionale. Temi, invece, che, organicamente orchestrati, sono presenti in Della Volpe, non tanto nella citata Critica del gusto, opera levigata della maturità, che facilmente si lascia etichettare come opera di estetica, ma paradossalmente già nella prima elaborazione teoretica degli anni trenta e quaranta.
Il punto da cui vorrei partire è la questione che Della Volpe pone nei Fondamenti di una filosofia dell'espressione, un'opera che risale al 1936, quando, constatando che "la ragione, l'universale" è venuto sempre più, dopo Kant, annullando "il sentimento, il particolare", si chiede : "il sentimento non ha altro modo di esprimersi che nel processo categoriale? La sua natura si esaurisce in questa sorta di obbiettivazione? Non ne conosce altra?" [3].
Sembrano domande scolastiche, ma esse aprono la strada ad una ricerca intorno ad una ragione non monista, ad una razionalità del molteplice che, sin dall'inizio, si presenta come una ricerca, ad un tempo, di etica e di filosofia del linguaggio. Infatti, in un'opera di poco successiva, e che al suo apparire, non ebbe quasi nessuna risonanza, cioè la Critica dei principi logici(1942), Della Volpe parla della sua filosofia come di una "critica trascendentale del fatto espressivo" che, ponendo al centro "l'esame trascendentale della struttura assoluta della parola", si tramuta in una "filosofia dell'esistenza" [4].
Insomma, mi pare che ce n'è abbastanza per suscitare l'interesse non solo del filosofo del linguaggio teoricamente interessato alle radici storiche della propria disciplina, ma anche di chi si propone di comprendere attraverso il linguaggio il senso dell'agire umano. Non posso seguire qui in tutta la sua complessità il discorso di Della Volpe, le cui enunciazioni teoriche si illuminano a contatto con le molteplici analisi che egli conduce, da Dante a Galilei a Leopardi, di testi scientifici e letterari. Mi limiterò a presentarne alcuni aspetti salienti, facendo riferimento soprattuto ai due testi prima citati, e cioè i Fondamenti di una filosofia dell'espressione del 1936 e la Critica dei principi logici del 1942.
In queste due opere, uno dei temi più suggestivi sviluppati da Della Volpe è quello dell'"irrequietezza della parola" [5], una formula suggeritagli dalla sua polemica antihegeliana contro la quiete che lo spirito assoluto raggiungerebbe al culmine del suo sviluppo dialettico.
Questa formula è centrale in Della Volpe, e proverò quindi, sia pur brevemente, a chiarirne qui, per quanto è possibile, il significato. Per Della Volpe dire che la parola è irrequieta, significa dire che la parola vive nel "dialogo dell'idea col suo contrario, il sentimento" [6]. Per sentimento, Della Volpe intende ciò che non è mai predicato. Per idea, ciò che è sempre predicato. La pura immagine che resta di un suono o di un colore, tolta ogni determinazione categoriale, quello è sentimento. E la pura determinazione categoriale o logica, come il concetto di essere o di uomo, quella è l'idea.
Ora, perché Della Volpe parla di "dialogo" e non più semplicemtente di "dialettica", visto che il risultato di questo dialogo è, come lui stesso afferma [7], quella sintesi di equilibrio espressivo che è la parola? In altri termini, qual è la funzione euristica del concetto di dialogo in Della Volpe?
Una prima pregnante funzione è quella di descrivere, beninteso trascendentalmente, la struttura interna della parola. Della Volpe ammette che tra idea e sentimento c'è una asimmetria di base, nel senso che il regime formale proprio di quell'equilibrio espressivo che è la parola, è il regime della determinazione categoriale, e non quello dell'immagine sentimentale. Tuttavia, il dialogo tra idea e sentimento non gli sembra una metafora vuota, perché la natura stessa dell'equilibrio espressivo richiede delle domande e delle risposte "non finte", nel senso che la parola, per costituirsi nella sua formalità espressiva, deve passare per il molteplice e il contigente costituito dal sentimento [8]. La parola, che qui viene a coincidere con la razionalità, è dunque dialogica nella sua stessa struttura interna.
Questa interna natura dialogica della parola si articola ­ ed è questa la seconda funzione, non meno pregnante, della presenza della metafora euristica del dialogo in Della Volpe ­ con il dialogo come scambio comunicativo tra parlanti.
Ecco l'intero passo in cui Della Volpe espone questa concezione:

«Si suol dire che gli uomini "s'intendono sempre" e cioe fanno uno ­ appunto in quanto "hanno idee" o pensano; ma, si dice al contempo, gli uomini pur "divergon fra loro" e cioè sono molti ­ appunto in quanto il loro pensare non è vuoto bensì è pieno dei "loro sentimenti" cioè del diverso (per definizione). Eppure gli uomini, checché si dica o si creda, non "si scambiano" mai delle pure idee:anche nell'astrazione piu alta si scambiano, con le idee, dei sentimenti cioe delle immagini (indifferenti): il loro pensare è un sentire sempre ­ e, conseguenza capitalissima, ciò che li unisce è il sentire tanto quanto il pensare ­ o il sentire come pensare: uniti, allora, in quanto divisi, uno-molti. Ogni uomo è, cosi, "se stesso" in quanto, ad es., fa delle scoperte scientifiche (le fa "lui") o ama o fa dell'arte ecc., ­ e si è visto che c'è bellezza ossia sentimento o stile insomma (negativo o positivo qui non c'interessa) in ognuno di questi atti; ed è, ogni uomo, al tempo stesso, "gli altri" cioè universo ­ in quanto tutti quegli atti non sono che un pensare (che è un sentire), e tutti pensano (cioè sentono) e infatti "si comprendono", come si dice, se sanno e vogliono. Se sanno e vogliono, appunto: occorre cioè che ogni pensante si sottometta all'autorità del gusto ossia del diverso ­ autorità cosí tipica nel processo artistico ­ o insomma "abbia gusto", sentimento. A questo punto ogni pensante diventa il pensante, anzi lo è già: poiché è proprio per questa perenne dialettica del gusto in quanto è la stessa dialettica dell'idea che l'universo sorge ad ogni momento (esso non è veramente mai fatto ma si fa sempre), ma sorge come universo pieno, uno-molteplice veramente; appunto perché il pensare non è idea che gioca con se stessa in un vuoto formalismo, ma idea che è senso e il pensiero ripetiamo un pensare concreto. L'universo sorge, dunque, da o per ognuna delle prospettive che sono i pensanti in quanto sono íl pensante cioè la consapevolezza come dialettica dell'idea, ma sorge, ripetiamo, come universo individuato o concreto in quanto la dialettica dell'idea è dialettica del gusto (= formalità come dialogo dell'idea col suo contrario)»[9].

Come si vede, il dialogo dell'idea con il suo contrario, il sentimento, che presiede alla generazione dei contenuti di pensiero individuali, ha la stessa logica del dialogo come scambio comunicativo tra parlanti. Infatti, la dialettica dell'uno e dell'universale e del molteplice e del contigente è alla base tanto dell'uno, quanto dell'altro. Nella prima forma di dialogo, il molteplice e il contingente è dato dalla singolarità del nostro sentire. Nella seconda forma, dalle infinite prospettive dei partecipanti allo scambio comunicativo. Per Della Volpe, insomma, pensare e comunicare sono atti coordinati di una stessa razionalità positiva.
Viene spontaneo qui l'accostamento tra questa concezione dialogica della razionalità e la contemporanea (anni Quaranta) teorizzazione di un Piaget intorno allo scambio discorsivo equilibrato. Per Piaget, il pensare e il comunicare formano una struttura operatoria, descrivibile in termini di raggruppamento matematico. In questo senso, il dialogo è una "cooperazione sociale intesa come un sistema di co-operazioni" [10], cioè come operazioni individuali la cui esecuzione si integra in un un sistema d'insieme. Questo carattere operatorio del dialogo assicura la possibilità di accordarsi su contenuti sempre nuovi, ma in un quadro di stabilità del sistema della comunicazione.
Come si vede, ritorna qui l'impostazione epistemologica di fondo di Piaget con la sua attenzione per il nuovo, ma anche per le costanti del sistema. Tornerò alla fine su quest'aspetto. Intanto, vorrei far notare come il tema dell'accordo è presente anche in Della Volpe. Infatti, per Della Volpe, il "nesso o circolo di eterogenei" che genera la parola e lo scambio comunicativo, è un nesso o circolo "a cui nessuna specie di storia è estranea" [11]. In altri termini, è un nesso a cui nessuna specie di discorso ­ poetico, filosofico, pratico ­ si sottrae. A questo proposito, Della Volpe adduce l'esempio della storia della filosofia intesa come dibattito nel tempo tra punti di vista differenti.
La storia della filosofia, o del pensiero, muove da concetti in quanto muove nello stesso tempo da intuizioni. Ma non nel senso che il pensiero da indistinto e astratto si fa distinto e concreto, bensì nel senso che "nello stesso atto di "coerenza" in cui il pensiero nasce, con la sua singolarità lo chiude nell'involucro della sua coerenza o non-contraddizione che fa tutt'uno con la "vocazione" o "genio" di chi pensa" [12]. Con una formula più attuale, potremmo dire che, nell'atto espressivo (filosofico, ma anche poetico o pratico), contenuto dell'enunciazione enunciatore e atto dell'enunciazione sono inscindibili, formano cioè quell'unicità del locutore da cui deriva il perpetuo variare e il contrasto dei sistemi o pensieri filosofici. Se così non fosse, sottolinea Della Volpe, dovremmo riconoscere con Hegel che ogni divergenza o disputa, filosofica o di ogni altro genere, esprime solo il grado maggiore o minore di astrazione attraverso cui la ragione, cioè l'unità, si manifesta nei suoi principi e sistemi, e quindi dovremmo ammettere che il fine immancabile del discorso filosofico, come di ogni altro tipo di discorso, è l'accordo nei principi. Ma se il singolare e il molteplice sono solo lacune provvisorie dell'uno, gradi di astrazione del pensiero in generale, e non fatti positivi, in che cosa consiste, si chiede Della Volpe, la positività del razionale o dell'uno? Che diventa l'uno se non unizza nulla? Come può unizzare se esso è solo? [13]
Dunque, conclude Della Volpe, non c'è e non ci può essere un accordo sui principi. Il solo accordo possibile non è nel pensare i principi, ma nel pensare tout court, ossia nell'agire. E poiché l'agire, ossia l'esperienza, è uno sforzo di coerenza contingentemente necessaria e universale, il solo accordo possibile è un accordo di discordia.
In altri termini, l'accordo ci può essere solo nel fatto che tutti pensiamo, cioè agiamo, nel senso che cerchiamo soluzioni coerenti per i problemi contigenti che ci sono dati da risolvere. Se vogliamo, quello di Della Volpe è un pragmatismo che implica la coerenza dell'adattamento biologico. Tuttavia, Della Volpe, dando prova di rigore filosofico, non varca questa soglia [14]. Egli piuttosto intraprende la strada di una filosofia dell'espressione che deve tramutarsi in una filosofia dell'esistenza.

Scarpelli: la natura linguistica della morale ­ A questo punto, proporrei di cambiare scenario, tralasciando momentanemaente questi sviluppi del discorso di Della Volpe, e cominciando ad occuparci della seconda direttrice che mi riprometto di approfondire, cioè il lato normativo del linguaggio esaminato in connessione con il tema della struttura morale del rispetto.
Lo farò, per cominciare, discutendo brevemente alcuni aspetti della filosofia di Uberto Scarpelli (1924-1993), di formazione anch'egli gentiliana, poi esistenzialista, infine, dagli anni cinquanta in poi, approdato alla filosofia analitica, nel doppio senso di etica analitica e di filosofia analitica del linguaggio. In Italia, la filosofia analitica del linguaggio aveva fatto una fugace apparizione, all'inizio del secolo, con Vailati. Scarpelli la riprende durante una sorta di felice intermezzo, quando ormai all'estero aveva avuto gli imponenti sviluppi che sappiamo, e prima che in Italia avesse i più recenti e altrettanto, se non imponenti, certo notevoli sviluppi che sappiamo. Inoltre, a differenza di Vailati, egli la comprende dentro una cornice di esplicita riflessione etica. Così, concetti centrali attorno a cui si organizza la sua riflessione sono la coerenza del discorso e la libertà della scelta etica. La coerenza, che come abbiamo visto è anche un tema dellavolpiano, mentre in Della Volpe è una condizione dell'esprimersi e dell'agire, in Scarpelli torna ad essere un principio logico di cui servirsi per demarcare il buono dal cattivo ragionamento, la scienza dalla metafisica. Quanto invece alla libertà della scelta etica, per Scarpelli è il fondamento del discorso normativo. Con una formula in cui si avvertono chiaramente gli echi esistenzialistici, Scarpelli infatti afferma che "l'ordinamento dell'esistenza mediante le proposizioni direttive di un discorso etico razionale ha radice in un atto di libertà, da rinnovare e confermare nel continuo riaprirsi delle possibilità" [15].
Questa conciliazione dal sapore kantiano di libertà esistenziale e di cogenza della norma non è però l'approdo finale di Scarpelli. Infatti, in un interessante confronto con il pensiero linguistico ed etico-politico di Hobbes circa la norma, la sua natura linguistica e la sua cogenza normativa [16], Scarpelli pone i seguenti punti:
a) la norma è un precetto attraverso cui un uomo è guidato e diretto in una qualsiasi azione; b) la morale consiste di norme, cioè di atti discorsivi direttivi; c) le norme sono asserzioni di passioni; d) la morale consiste di norme ancorate nelle passioni; e) la norma morale fondamentale è quella della conservazione della vita.
Tre mi sembrano i tratti salienti di questa costruzione etica e linguistica. Anzitutto, l'affermazione della natura linguistica della morale. Infatti, è vero che la norma è un rapporto pragmatico, ma è anche vero che essa si esprime sempre attraverso un discorso. L'eloquenza percettiva dell'esempio, su cui, ad esempio, insiste un Calogero [17], viene qui implicitamente concepita come un momento, se non marginale, certo eccezionale della morale.
In secondo luogo, l'integrazione delle passioni nell'etica razionale discorsiva. C'è qui, sebbene non esplicitamente tematizzato, qualcosa della preoccupazione di Della Volpe di integrare nella razionalità ciò che Della Volpe stesso chiama il molteplice e il contingente.
In terzo luogo, la centralità assegnata alla passione egoistica dell'autoconservazione. L'atto di libera scelta da cui deriva il dover essere è, insomma, fondato sul principio biologico dell'autoconservazione della vita.
Michail Bachtin, su cui tornerò alla fine della mia esposizione, e che, è bene ricordarlo, concepiva la sua filosofia del dialogo essenzialmente come una filosofia morale [18], osservava abbastanza crudamente che "i tentativi di fondare biologicamente il dover essere sono inadeguati e addirittura immeritevoli di considerazione" [19]. Non credo che un tale atteggiamento vada riservato alla seria riflessione filosofica di Scarpelli. È un fatto, però, che Scarpelli, e con lui molte etiche empiristiche e analitiche, scegliendo di fondare il dovere sul principio dell'autoconservazione della vita, si trovano davanti ad una contraddizione che indebolisce la loro posizione. Infatti, se la morale si fonda di per sé su un istinto, a che pro invocare la cogenza del dovere?
D'altra parte, soluzioni alternative, come quella, ad esempio, proposta da Kant con la sua morale del rispetto, non sono, a loro volta, privi di contraddizione. Anzi, come dice impietosamente stavolta non più Bachtin, ma lo stesso Della Volpe, che in una delle sue prime opere, ha affrontato anch'egli l'argomento, la nozione di rispetto è la "contraddizione letale" dell'etica kantina [20]. Infatti, Kant per spiegare il dovere come movente della nostra volontà ha dovuto escogitare una specie di ircocervo, qual è appunto il sentimento intellettuale del rispetto (Achtung), cioè il timore tutto intellettuale della legge morale.
Nei primi decenni del '900, se in Italia era Della Volpe a rilevare questa "contraddizione letale" dell'etica kantiana, all'estero, in particolare in Svizzera, in quella Svizzera romanda che è sempre stata una provincia felicemente autonoma della cultura francese, erano il filosofo e psicologo P. Bovet (1878-1964) e, al suo seguito, J. Piaget, che di Bovet era allievo, a discutere e a ribaltare la prospettiva di Kant. Mi limiterò qui ad una presentazione succinta di questa discussione, quanto basta per venire al punto che ci interessa, e cioè il momento iniziale del contatto pragmatico tra chi emana la norma e chi la riceve.

Piaget: una concezione affettiva e evolutiva del rispetto ­ Nella Fondazione della metafisica dei costumi, Kant sosteneva che "il rispetto che noi abbiamo per una persona è in realtà il rispetto della legge del quale questa persona ci offre un esempio" [21]. La proposta di Bovet è che bisogna rovesciare i termini di questo principio, e dire che "il rispetto che noi abbiamo per una legge è in realtà il rispetto per la persona dalla quale noi riceviamo quella legge" [22]. In particolare, rifacendosi al modello del rapporto tra genitore e bambino, Bovet sostenne che il rispetto nasce dal contatto affettivo tra due persone:

«laddove un sentimento sociale agisce per creare il rapporto del quale c'è bisogno fra l'autore della consegna e il suo soggetto, esso agisce non tanto in quanto è sociale, ma in quanto è sentimento» [23].

Nel suo Giudizio morale nel fanciullo, Piaget accetta questa concezione affettiva del rispetto, che egli ribattezza rispetto unilaterale, durante la quale la morale si manifesta come morale dell'autorità, ma la integra in un processo evolutivo che ha il suo compimento nel rispetto reciproco, durante la quale la morale si trasforma in morale dell'autonomia, e ciò parallelamente al passaggio dal pensiero preoperatorio al pensiero operatorio sino alla sua forma più compiuta di pensiero ipotetico-deduttivo.
Ora, il fatto da sottolineare è che Piaget concepisce la morale come un discorso e la distingue dal comportamento morale vero e proprio ­ un fatto che si può rilevare agevolmente dalla lettura del Giudizio morale nel fanciullo, ma che non manca di suscitare sorpresa quando lo si mette in evidenza [24]. Questo è sicuramente un punto di contatto con l'impostazione analitica à la Scarpelli. Rispetto all'impostazione analitica, però, Piaget si pone il problema del rapporto tra discorso e comportamento morale (teoria dei décalages o dislivelli temporali), mettendo in luce le trasformazioni evolutive cui il discorso morale è soggetto, e che dipendono dalle trasformazioni evolutive del rispetto. Qui, però, non mi soffermerò ulteriormente su queste differenze, poiché ciò che mi interessa è di approfondire il momento iniziale del contatto affettivo, che nell'elaborazione di Piaget è come risucchiato verso l'esito finale della psicogenesi. Lo farò discutendo innanzitutto il racconto evolutivo della nascita del rapporto genitore-prole che troviamo in uno dei più grandi biologi viventi, e cioè Ernst Mayr.

Mayr: i prodromi evolutivi del rispetto ­ Ragionando intorno al processo di ominazione, Mayr mostra il semplicismo del racconto secondo il quale, a determinare tale processo, sarebbe stata l'acquisizione della stazione eretta da parte di alcune orde di ominidi, che avrebbe permesso l'uso di strumenti. L'uso degli strumenti da parte degli scimpanzé, infatti, lascia intendere che il loro utilizzo da parte degli ominidi fosse un'abilità acquisita prima della stazione eretta. L'acquisizione della stazione eretta, inoltre, nei circa 2 milioni di anni e più successivi all'apparizione dei primi manufatti umani non consentì che un lieve miglioramento della tecnica della loro costruzione. Infine, la stazione eretta non ebbe conseguenze significative sull'accrescimento del volume del cervello che, per gli oltre 2 milioni di anni in cui vissero diverse specie di austrolapitechi, si mantenne molto piccolo [25]. L'acquisizione della stazione eretta è stato allora un fatto evolutivo di non così fondamentale importanza? Ovviamente, no. Anzi, essa ha avuto un'enorme influenza evolutiva, ma non sul punto su cui insiste il racconto che lega assieme stazione eretta-liberazione della mano-uso degli strumenti-sviluppo del cervello. Il nesso è un altro, e vale la pena di leggere tutto il passo in cui Mayr lo espone:

«Le prime australopitecine erano ancora semiarboricole, con i piedi adatti per arrampicarsi e le braccia relativamente più lunghe di quelle degli ominidi fossili successivi e dell'uomo moderno. Di conseguenza, la loro prole doveva essere sin dalla nascita in grado di afferrare la madre durante i suoi spostamenti da un albero all'altro, proprio come avviene oggi con i piccoli delle varie specie di scimmie. Tra 2 e 2,5 milioni di anni fa, il passaggio definitivo alla vita terrestre liberò le mani e le braccia delle madri che poterono così portare con sé i propri piccoli, i quali videro allungare il periodo della loro dipendenza dalle cure materne. Tale sviluppo più lento, a sua volta, fu favorevole al processo di crescita del cervello nella prima infanzia, che è caratteristico della specie umana. Pertanto, l'impatto più importante della deambulazione eretta si ebbe sul comportamento materno e non sull'uso di strumenti» [26].

Benché altri autori sfumino il quadro abbozzato da Mayr [27], il senso del passo citato secondo me è il seguente: all'origine del processo di ominazione non c'è l'affermazione di una logica strumentale, bensì di un modello culturale. All'origine del processo di ominazione non c'è l'abilità tecnica di forgiare l'ascia di pietra, bensì la costituzione dei prodromi di ciò che poi sarà la diade madre-figlio.
A dire il vero, Mayr non sottolinea abbastanza il legame tra l'emergenza del comportamento materno e il linguaggio. Per Mayr, fu la realizzazione di vasti accampamenti ai fini della caccia a richiedere lo sviluppo del linguaggio. Tanto più complessi erano gli accampamenti, tanto più elaborati i piani d'attacco, più sviluppate le strategie, più sofisticate le armi. Questo nuovo stile di vita, conclude Mayr, richiedeva "l'elaborazione di un efficiente sistema di comunicazione: il linguaggio" [28].
Per Mayr, dunque, il linguaggio è un mezzo di comunicazione che al suo apparire, 300-200 mila anni fa, accresce il vantaggio selettivo dei piccoli gruppi di progenitori dediti alla caccia e alla raccolta di frutta ed erbe selvatiche. È uno strumento del pensiero strategico.
Questo aspetto strumentale del linguaggio e il suo impatto evolutivo sono innegabili, ma dall'ontogenesi del linguaggio abbiamo appreso abbastanza sull'importanza del rapporto madre-figlio per non immaginare che il comportamento materno come descritto da Mayr stesso, sia stato ­ certo, assieme ad altri fatti evolutivi, come il possesso di un adeguato apparato fonatorio ­ un elemento essenziale nella costituzione del linguaggio.

Lacan: il simbolico e il normativo ­ Ho parlato prima di prodromi di ciò che poi sarà la diade madre-figlio. Stiamo parlando infatti di premesse evolutive di ciò che poi sarà il vero e proprio linguaggio umano. Credo, infatti, che per parlare di linguaggio umano vero e proprio si debba aspettare l'instaurarsi del simbolico con le figure che lo caratterizzano: il servo e il padrone, il governato e il governante, la forza e il consenso, l'uccisione rituale e il patto tra eguali, ecc. Figure che comportano il superamento dei meri appetiti (sesso, territorio, fame) e l'abbozzo di un primo, seppur terribile, mondo delle passioni (guerra, paura, insicurezza, ecc.). In altri termini, il linguaggio con cui comincia la storia umana. E qui, il racconto evolutivo di Mayr, per quanto avvincente, non ci basta più. Dobbiamo rivolgerci ad altri, a coloro che a vario titolo hanno indagato il simbolico. Ad esempio, in campo psicoanalitico, a Jacques Lacan, un autore ora molto meno alla moda, e a cui quindi ci si può accostare senza i pericoli che le mode comportano. A proposito dell'Edipo, e della "logica del desiderio" che lo governerebbe, Lacan ha detto, sebbene a volte in modo oscuro, cose interessanti intorno al tema del Nome-del-Padre, del rispetto e della Legge.
Un primo nesso che emerge dal discorso di Lacan, è quello tra la figura (o ruolo) paterna, la legge, intesa come comando originario, e il linguaggio. Per Lacan "è nel nome del padre che dobbiamo riconoscere il supporto della funzione simbolica, che dal sorgere dei tempi storici identifica la propria persona con la figura della legge" [29]. E la legge "si lascia dunque riconoscere a sufficienza come identica a un ordine di linguaggio" [30], nel senso che sono le nominazioni di parentela a permettere al potere di istituire le preferenze e i tabù lungo il filo generazionale delle discendenze [31].
È evidente l'eco di Lévi-Strauss in quest'ultima affermazione, in cui il linguaggio svolge ancora, tutto sommato, una funzione strumentale: la conoscenza dei nomi di parentela è la condizione per poter discriminare tra le persone e fissare i tabù. Ma Lacan va più in là, e staccandosi da questa matrice antropologica di stampo razionalistico, afferma che "l'attribuzione della procreazione al padre" è soltanto l'"effetto di un puro significante, di un riconoscimento non del padre reale ma di ciò che la religione ci ha insegnato a invocare come Nome-del-Padre" [32].
Qui emerge un secondo nesso, più profondo, tra la religione, con il suo tema del Nome di Dio, indagato da teologi e mistici, il padre come ruolo simbolico e il linguaggio come lavoro sul significante. Per i mistici, e penso soprattutto ai mistici della cabbala, il Nome di Dio è l'Ur-Name, il nome originario che contiene l'essenza dell'Universo. Esso è significante puro, e per di più un significante scritto. Il che è un bel problema per chi sostiene l'innatezza del linguaggio. Dovremmo, infatti, cominciare a scrivere, prima di cominciare a parlare.
Ma per restare al nostro tema, Lacan attribuisce al Nome-del-Padre la stessa valenza originaria che il Nome di Dio ha per i mistici. E ciò spiega l'associazione, vista prima, tra il padre, il Nome-del-Padre e la legge. Per i mistici cabbalisti, infatti, la parola di Dio, che è il manifestarsi discorsivo del Nome di Dio, significa anche governo del mondo [33]. Dio è un essere linguistico dotato di autorità legiferante, cui si deve un rispetto assoluto [34]. È questo, a mio parere, il modello che ha in mente Lacan quando enuncia il tema del Nome-del-Padre: il padre come una figura linguistica ­ nel senso di ente linguistico e di soggetto enunciatore ­ dotata di autorità legiferante cui si deve un rispetto assoluto.
Ma non eravamo forse partiti dalla diade madre-figlio, fattaci intravvedere filogeneticamente da Mayr? Come siamo finiti al Nome-del-padre e al padre? Abbiamo forse perso per strada il filo del discorso, che concerneva la madre? No, non abbiamo perso il filo del discorso, perché la diade madre-figlio in Lacan acquista rilievo in connessione con il tema del Nome-del-Padre. Afferma infatti Lacan:

«Partiamo dalla concezione dell'Altro come luogo del significante. Ogni enunciato d'autorità non trova in esso altra garanzia che la sua stessa enunciazione, perché è vano che la cerchiamo in un altro significante, che in nessun modo potrebbe apparire fuori da questo luogo. Cosa che formuliamo dicendo che non c'è un metalinguaggio che possa essere parlato o, più aforisticamente, che non c'è Altro dell'Altro. E il Legislatore (colui che pretende di erigere la Legge) in quanto esige di supplirgli si presenta come impostore. Ma non così la legge, né colui che se ne autorizza. Di questa autorità della Legge il Padre può essere considerato il rappresentante originale: ciò esige che si specifichi quale sia il modo privilegiato di presenza con cui si regge al di là di quel soggetto che è portato ad occupare in modo reale il posto dell'Altro, e cioè la Madre» [35].

La Madre è dunque il lato percepibile di quel significante assoluto e originario che è il Padre, di quel Padre che è il rappresentante originario dell'autorità della Legge. Ora, per uno psicoanalista come Lacan, che reinterpreta strutturalisticamente l'Edipo freudiano e studia l'eziologia della psicosi, è importante occuparsi "non soltanto del modo con cui la madre si colloca in rapporto alla persona del padre, ma del caso ch'ella fa della sua parola, diciamo il termine giusto, della sua autorità, in altri termini del posto che riserva al Nome-del-Padre nella promozione della legge" [36].
A dire il vero, nei mistici cabbalisti che abbiamo fin qui seguito, manca questa figura di intermediazione etico-giuridico-linguistica che è la Madre. Per loro, Dio linguaggio e legge formano un dispositivo unico che richiama una sorta di fisica mistica dell'universo. In Lacan, invece, c'è l'esigenza di rendere percepibile il significante paterno. E proprio a questa funzione è chiamata la Madre. Più che un modello fisico, agisce qui, credo, un modello biologico che recupera ed ingloba la tattilità implicita nel racconto filogenetico di Mayr.
In conclusione, funzione della Madre è di iscrivere il Nome-del-Padre nel discorso che lei tiene con il figlio. La logica del desiderio che alimenta l'Edipo acquista così un senso, la cui alterazione è alla base della psicosi. Ma non è questo lato propriamente psicoanalitico e patologico della questione che ci interessa. Quello che ci deve interessare è che in Lacan, come è stato giustamente osservato, si attenua l'aspetto di rivalità omicida, proprio dell'Edipo freudiano, e viene in primo piano il tema del timore e del rispetto del padre [37]. Specularmente, come è stato ancora osservato, la madre lacaniana è "la madre che porta la parola. È infatti la parola della madre che rende attiva la metafora paterna. È attraverso la parola della madre che un padre riceve agli occhi di un bambino il suo prestigio" [38].
In altri termini, la madre lacaniana è l'articolazione discorsiva del Nome-del-Padre, inteso secondo il modello mistico-cabbalistico, cioè come essere linguistico dotato di autorità legiferante. In quanto tale, la madre lacaniana rende possibile l'instaurarsi della struttura del rispetto, quella struttura in cui il padre è dotato di prestigio ed è oggetto di timore. È questo l'ordine simbolico che ingloba e umanizza la diade madre-figlio resa possibile dalla deambulazione eretta. Ed in questo ordine simbolico originario, etica diritto e linguaggio formano un tutto unico [39].

Dalla costrizione della lingua alla libertà del discorso ­ Abbiamo lasciato prima in sospeso la filosofia del'espressione di Della Volpe, e ci siamo dedicati ad un altro scenario, quello dell'aspetto normativo del linguaggio connesso al tema della struttura morale del rispetto. Cerchiamo ora di riunire in un solo quadro conclusivo i due scenari. Lo scopo è di arricchire, quando è possibile, i nostri concetti, ma anche, quando è necessario, di mostrare i punti problematici, bisognosi di ulteriori approfondimenti. Il quadro che voglio offrire è, insomma, quello di un palcoscenico dove si aprono e si chiudono delle porte, e ad ognuna di esse corrisponde una prospettiva cha fa risaltare i limiti dell'altra. Non una sintesi, quindi, ma una giustapposizione di punti di vista, che mi porterà anche ad introdurre qualche altro elemento nuovo.
La prospettiva da cui siamo partiti è quella di una filosofia dell'espressione in Della Volpe, che, abbiamo visto, deve tramutarsi secondo il suo autore, in una filosofia dell'esistenza. La cosa interessante è che questa trasmutazione avviene senza abbandonare il piano del linguaggio, anzi, se possibile, rendendolo ancora più centrale.
Abbiamo visto che per Della Volpe la parola è irrequietezza e equilibrio espressivo. Essa, però, è anche impossibilità di contraddirsi [40]. Infatti, la parola è per Della Volpe azione spontaneamente adattata che, in quanto tale, riflette e partecipa della condizione umana, definita dalla sua contingenza necessaria e dalla sua singolarità. È con questa formula densissima che Della Volpe annuncia la trasmutazione della sua filosofia dell'espressione in una filosofia dell'esistenza, cioè in una filosofia delle possibilità che, per il nostro stesso esistere, ci sono date e che noi realizziamo con le nostre scelte. Esistere, comunicare e agire si equivalgono, e condividono tutti il rischio della morte, dello scacco comunicativo e del fallimento.
Corollario essenziale di questa trasmutazione della filosofia dell'espressione in filosofia dell'esistenza è l'integrazione di un'etica i cui concetti centrali sono quelli di umanesimo critico e di persona storica.
Tuttavia, più che discutere di questi sviluppi etici della filosofia di Della Volpe, per altro in sé interessanti, vorrei far notare la straordinaria somiglianza di percorso tra Della Volpe e un autore che abbiamo già richiamato a proposito della inadeguatezza di ogni tentativo di fondare biologicamente il dover essere, e cioè Michail Bachtin [41].
Come in Della Volpe, anche in Bachtin indagine linguistica, indagine etica e filosofia della vita coincidono. Come in Della Volpe, anche in Bachtin l'indagine linguistica è un'indagine sulla interna natura dialogica della parola. Come in Della Volpe, infine, anche in Bachtin la vita, la morale e il linguaggio non possono essere indagati senza prendere in conto la singolarità dell'esistenza umana. Entrambi, insomma, rifiutano il teoreticismo, e mettono mano ad una filosofia che aderisca senza residui all'esistenza.
Tuttavia, il problema che essi lasciano aperto, e che, per quanto più vivo in Bachtin, è presente anche in Della Volpe, è lo statuto di questa loro filosofia dell'esistenza o della vita. Se nessuna teoria è adeguata a dirci cos'è la verità, il bene, la bellezza, poiché questi sono valori che si realizzano solo a partire dall'unicità di ogni esistenza umana, allora, che cosa descriverà, che cosa raffigurerà la loro filosofia dell'esistenza?
In questi due autori c'è lo sforzo di resistere alla tensione tra singolarità e universalità, senza cedere all'irrazionale. Non c'è dubbio, però, che in essi si annuncia il problema difficile dell'astrazione con cui costruiamo i nostri criteri di giudizio conoscitivi, etici, estetici, che ci servono pur da guida in quell'agire singolare che Della Volpe e soprattutto Bachtin vorrebbero senza residui raffigurare.

L'altra prospettiva con cui abbiamo proseguito nella nostra discussione è stata quella della natura affettiva del rispetto, dove abbiamo affrontato il problema dell'ordine simbolico originario da cui scaturisce la diade madre-figlio, e nel quale etica diritto e linguaggio formano un tutto unico. Il senso del discorso di Lacan è che etica diritto e linguaggio appaiono originariamente segnate dal principio di autorità. Non mancano speculazioni etiche, giuridiche e linguistiche che pongono nell'autorità per antonomasia, cioè in Dio, l'origine dei doveri morali, delle leggi, del linguaggio. Limitandoci al linguaggio, per i grammatici indiani (Katyayana, Panini e Patanjali), l'autorità per la conoscenza delle parole del sanscrito era posseduta dagli Sistas, dei Bramini dall'aura misteriosa che vivevano in una certa regione dell'India (Aryavartta), e il cui comportamento faceva pensare al possesso di una grazia divina o comunque di una natura speciale [42].
Più vicino a noi, Saussure, riflettendo sulle cause dell'impossibilità per l'individuo e per l'intera società di cambiare il rapporto tra significante e significato, farà a meno di Dio, e al suo posto metterà l'eredità evolutiva che fa sì che la lingua, ancor più che la legislazione, sia subita assai più che non la si costruisca [43].
Dunque, religione, diritto, morale, lingua hanno il carattere comune di sovrastare l'individuo e la società, e di imporsi loro dall'esterno. Sono forme di costrizione. La stessa costrizione che la psicogenesi, nei lavori di Piaget sullo sviluppo del giudizio morale nei bambini, ci fa osservare all'inizio del rapporto di rispetto, dove i genitori o gli adulti o, in generale, i più grandi, sono come i Bramini Sistas per i grammatici indiani. Conoscono l'uso delle parole, tra cui, frequentissime, quelle che esprimono obblighi e permessi, e fanno pensare al possesso di una grazia divina o comunque di una natura speciale.
Tuttavia, quello che la psicogenesi ci fa ulteriormente osservare è un fatto che le varie speculazioni filosofiche e lo stesso Saussure non notano o al quale non sembrano interessati, e cioè che le forme originariamente costrittive del linguaggio, del diritto e della morale evolvono verso la cooperazione, e che l'originaria credenza o affermazione circa il carattere divino delle regole e di chi le pone lascia il posto all'affermazione della loro natura contrattuale.
In campo linguistico, è stato ancora una volta Bachtin ad interessarsi a questa trasformazione, con la sua opposizione tra discorso autoritario e discorso internamente persuasivo [44]. Ma vi è anche la distinzione di Benveniste tra segno e frase, segno e testo, lingua e discorso. Dice Benveniste: il segno deve essere riconosciuto, il discorso deve essere compreso [45]. Tuttavia, un risultato che emerge dalla nostra discussione è che per dar conto della comprensione del discorso non basta più una teoria linguistica dell'enunciazione, ma occorre varcare la soglia, per quanto difficile, di una filosofia dell'esistenza nel senso che sopra abbiamo visto.

Dunque, prospettiva della filosofia dell'espressione in Della Volpe, con le analogie che abbiamo trovato in Bachtin; e prospettiva del rispetto, con le sue implicazioni semiotiche e oltre. Un tema comune ad entrambe le prospettive, e su cui vorrei brevemente ritornare, è la psicogenesi di Piaget. Come abbiamo visto, tanto nell'impostazione epistemologica di Piaget, quanto nella sua teoria del dialogo, assieme all'attenzione per il nuovo, c'è anche la preoccupazione di salvaguardare le costanti nelle trasformazioni fisiche o logico-matematiche, o nel sistema della comunicazione. Analogamente, la sua rilettura del rispetto kantiano in termini di rispetto unilaterale e di rispetto reciproco è il tentativo, potremmo dire utilizzando le categorie di Della Volpe, di far posto al sentimento senza però mettere effettivamente in discussione il ruolo normativo della ragione.
Con Della Volpe, ma anche con Bachtin, possiamo allora, per così dire, depurare Piaget di quel residuo di finalismo e di razionalismo che permane in lui, e concepire la psicogenesi non come un processo finalistico che, incorporando uno stadio dietro l'altro, colmando una lacuna dietro l'altra, si acquieta nel pensiero ipotetico-deduttivo, ma come una possibilità esistenziale che, per quanto biologicamente determinata, noi realizziamo con le nostre scelte. Scelte che avvengono in quel rischioso crogiuolo affettivo che è la struttura linguistico-normativa del rispetto.

Infine, il dialogo. Nel suo significato più comune, esso significa disponibilità all'ascolto dell'altro. Ma significato più comune non significa significato più disprezzabile, poiché il dialogo come ascolto dell'altro è in realtà legato ad un significato più profondo che abbiamo visto emergere nel corso della nostra discussione, e cioè il dialogo come struttura interna del pensare e di quel comunicare che è un pensare in comune (l'accordo di discordia di Della Volpe e la co-operazione di cui parla Piaget). Il dialogo, quindi, come forma interna stessa del linguaggio: enunciamo discorsi costruendo nessi, affettivamente carichi, dentro di noi e assieme agli altri.
Ma c'è ancora un ulteriore significato di dialogo che emerge bene in quell'affermazione di Bachtin secondo la quale il principio supremo del reale mondo dell'azione è la contrapposizione concreta tra io e altro [46]. Questo è un punto delicato, poiché da questa contrapposizione si potrebbe far derivare la riaffermazione del principio dell'homo homini lupus. Ma un tale principio comporta la negazione dell'altro, mentre la contrapposizione concreta tra io e altro è la salvaguardia di quel molteplice e contingente (Della Volpe), di quella singolarità (Bachtin) da cui deriva la sintesi non vuota, ma concreta, della ragione positiva.


Note

[*] F. Aqueci, Vailati, Calogero, Piaget. Temi e suggestioni per una semioetica, "Bollettino Filosofico", Dipartimento di Filosofia dell'Università della Calabria, 13, 1997, pp. 277-295. On line in questo sito.

[1] La causalità secondo E. Meyerson, in AA.VV., Le teorie della causalità, (1971), Torino, Einaudi, 1974, p. 161.

[2] P. Fabbri, La svolta semiotica, Bari, Laterza,1998.

[3] Fondamenti di una filosofia dell'espressione, in Opere, Roma, Editori Riuniti, 1973, voll. 6, a c. di I. Ambrogio, vol. III, p. 14.

[4] Critica dei principi logici, in Opere, cit., vol. III, pp. 172-3.

[5] Fondamenti di una filosofia dell'espressione, in Opere, cit., vol. III, passim; Critica dei principi logici, in Opere, cit., vol. III, p. 262.

[6] Fondamenti di una filosofia dell'espressione, in Opere, cit., vol. III, p. 43.

[7] Fondamenti di una filosofia dell'espressione, in Opere, cit., vol. III, p. 47.

[8] Fondamenti di una filosofia dell'espressione, in Opere, cit., vol. III, pp. 43-4.

[9] Fondamenti di una filosofia dell'espressione, in Opere, cit., vol. III, p. 46.

[10] Studi sociologici, (1977), Milano, Angeli, 1989, p. 125. Per una discussione più approfondita di questa concezione del dialogo di Piaget, rinvio a F. Aqueci, Argumentation et dialogue: le problème de la comprehension dans les échanges socio-discursifs, in "L'Année sociologique", 45, 1995, n. 1, pp. 11-34.

[11] Critica dei principi logici, in Opere, cit., vol. III, p. 262.

[12] Ibidem.

[13] Critica dei principi logici, in Opere, cit., vol. III, p. 263.

[14] Pur intravvedendola. Cfr. Critica dei principi logici, in Opere, cit., vol. III, p. 173, dove rifiuta di seguire Nietzsche su questa strada.

[15] Etica senza verità, Bologna, Il Mulino, 1983, p. 72.

[16] Thomas Hobbes. Linguaggio e leggi naturali, Milano, Giuffré, 1981.

[17] G. Calogero, Lezioni di filosofia, II: Etica (1946), Einaudi, Torino, 1960, p. 168.

[18] Per una filosofia dell'azione responsabile, (1920-24), Lecce, Manni, 1998, p. 65.

[19] Ivi, p. 38.

[20] La filosofia dell'esperienza di David Hume, 1935, in Opere, cit., vol. II, p. 332.

[21] Fondazione della metafisica dei costumi, (1785), tr. it. a cura di P. Chiodi, Bari, Laterza, 1988, p. 22.

[22] Les conditions de l'obligation de conscience, "L'année psychologique", XVIII, 1912, pp. 55-120, p. 114.

[23] Ibidem.

[24] Sorpresa, ad esempio, è stata manifestata nel dibattito seguito alla presentazione, al Congresso Piaget-Wygotskij del settembre 1996, a Ginevra, di una mia comunicazione dal titolo La sémio-éthique de Jean Piaget, (on line in questo sito), in cui ho sostenuto questo punto di vista. E, in generale, nella letteratura piagettiana sull'argomento, questo è un punto cui non viene attribuita l'importanza che merita.

[25] E. Mayr, Il modello biologico, Milano, McGraw-Hill, 1998, pp. 194-195.

[26] Ibidem.

[27] G. M. Edelman, G. Tononi, Un universo di coscienza, Torino, Eiunaudi, 2000, p. 236.

[28] E. Mayr, Il modello biologico, cit. p. 196.

[29] Scritti, Torino, Einaudi, 1974, voll. 2, vol. I, p. 271.

[30] Ivi, p. 270.

[31] Ibidem.

[32] Scritti, cit., vol. II, p. 552.

[33] G. Scholem, Il nome di Dio e la teoria cabbalista del linguaggio, Milano, Adelphi, 1998, p. 59.

[34] Ivi, p. 20.

[35] Scritti, cit., vol. II, p. 817.

[36] Scritti, cit., vol. II, p. 575.

[37] M. Recalcati, Introduzione alla psicoanalisi contemporanea, Milano, B. Mondadori, 1996, p. 104.

[38] Ivi, p. 183.

[39] Nel corso del dibattito, è stato osservato che, per quanto ci si sforzi, rimane sempre un "anello debole" nella ricostruzione del passaggio dal biologico al simbolico. L'osservazione, tanto in generale, quanto in riferimento all'analisi presentata nel testo, è sicuramente fondata. Per l'emergenza del simbolico, infatti, andrebbero presi in considerazione fattori come il gioco o l'imitazione, per non parlare poi di quella semplice ma fondamentale operazione cognitiva che consiste nell'indicare qualcosa con qualcos'altro. Tuttavia, è anche vero che la ricostruzione del passaggio dal biologico al simbolico non potrà mai essere una fotografia in grado di soddisfare integralmente la nostra sete di perché. Forse, la soluzione sta nel fare una selezione dei perché più significativi, e cercare di dare loro delle risposte persuasive.

[40] Critica dei principi logici, in Opere, cit., vol. III, p. 173.

[41] Mi riferisco in particolare all'opera prima citata Per una filosofia dell'azione responsabile, (1920-24), Lecce, Manni, 1998.

[42] M.M., Deshpande, Evolution of the notion of authority (Pramanya) in the paninian tradition, in "Histoire Épistemologie Langage", 20/1, 1998, pp. 5-28.

[43] Cours de linguistique générale, ed.cr. a c. di R. Engler, 4 voll. Wiesbaden, 1183 IIR e 1139-1144 IIIC.

[44] Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1979, pp. 150 sgg.

[45] E. Benveniste, Problèmes de linguistiques générales, 2, Paris, Gallimard, 1974, pp. 64-5.

[46] Per una filosofia dell'azione responsabile, cit., p. 80.


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