In due precedenti interventi (Aqueci, 1997; 2000), volti a tracciare le vie di una possibile semioetica, ho adottato una definizione di comunicazione come ideazione pubblica di contenuti di pensiero individuali, intendendo con ciò mettere in evidenza la progressione genetica che conduce al carattere pubblico della comunicazione, ma al tempo stesso la problematicità del suo stabilirsi. Questa definizione ripropone la questione di ciò che trent'anni fa Ferruccio Rossi Landi chiamava l'alienazione del linguaggio. Alienazione linguistica, nel senso che il parlante, dal momento in cui entra nella macchina di produzione linguistica, ne deve accettare inesorabilmente le regole, pena la sua morte linguistica. E questa inesorabilità del meccanismo lo spossessa del suo prodotto linguistico, e rende la comunicazione un processo che sovrasta l'individuo (Rossi Landi, 1968, pp. 103-104). Non esiste, dunque, linguaggio privato, e la comunicazione è solo pubblica, ma in quanto tale il linguaggio è alienato.
Questa identificazione di linguaggio, carattere pubblico della comunicazione e alienazione riproduce lo stesso errore che György Lukács, di cui qui mi occuperò ancora in seguito, riconobbe autocriticamente nella sua identificazione giovanile di oggettivazione e alienazione, ammettendo che «l'oggettivazione è naturalmente priva di un indice di valore» (Lukács, 1967, p. XLIV). Lo stesso si può dire del linguaggio, il quale emerge da una socialità eticamente neutra, di cui la naturale «attenzione comune» fra i partecipanti all'interazione comunicativa è il tratto peculiare (Bara, 1999, p. 84). Tuttavia, una caratterizzazione di tale emergenza come progressione linearmente naturale dall'attenzione comune alla restrizione progressiva sui materiali fonetico-sintattici sino alla conversazione che fonda il dibattito pubblico quale libero esame condiviso (Changeux, 2002, pp. 149-152), rende implausibilmente deterministico ciò che è solo una possibilità etica, ovvero, per dirla con i termini classici di John Locke, la possibilità del passaggio dalla socialità linguistica, o socialità naturale dello stato di natura (Locke, 1690b, VIII, 95, p. 297), alla socialità discorsiva, o socialità normativa del patto politico (Locke, 1690b, IV, 22, p. 244). Un passaggio che, quando si innesca, è sorretto dalla struttura trasformazionale del rispetto, il quale, come è stato ultimamente sottolineato, «significa accettare negli altri proprio ciò che non si capisce di loro» (Sennett, 2004, p. 256). L'opacità dei contenuti individuali non è dunque un dato estrinseco che la comunicazione pubblica possa rimuovere, né d'altra parte la loro messa in discorso coincide con l'alienazione del soggetto linguistico. L'attenzione comune, come anche la presupposizione che l'altro compia le mie stesse operazioni logico-discorsive quando usa le parole (Locke, 1690a, III, II, 4, p. 477), sono strutture eticamente neutre della comunicazione. Tuttavia, se al pari dell'oggettivazione, la comunicazione vuole essere un'esperienza che non allontana l'essere dell'uomo dalla sua essenza (Lukács, 1967, p. XLIV), allora essa deve incorporare una buona dose di opacità dell'altro.
In questo mio terzo intervento circa le vie di una possibile semioetica, vorrei riprendere queste questioni approfondendo il nesso tra segno, scopo e intelligenza che ho già in parte esplorato in altri lavori, trattando delle semiotiche di Peirce, Saussure e Piaget (Aqueci, 2003; 2004). In questi lavori, la relazione del segno al piano evolutivo della morale m'è parsa di poterla individuare nel fatto che il linguaggio, in quanto programma finalistico aperto o, secondo i termini di Mayr (1992), teleonomico, comprende fra i suoi scopi espressivi anche quello di determinare aristotelicamente il giusto e l'ingiusto. Vorrei provare ad andare un po' oltre questo generico nesso, mostrando il caratterre semioetico non più solo del linguaggio, ma anche della mente.
A tal fine, vorrei ricollegarmi ancora alle ricerche di Rossi Landi, in particolare alla sua ipotesi circa un'omologia esistente tra linguaggio e mercato, tra segni e merci, ipotesi poi ripresa in maniera più sofisticata da Eco (1975, pp. 39-40; 203), il quale non cercherà più di applicare le categorie dell'economia al linguaggio, ma di inglobare l'economia nella semiotica. Il punto che vorrei riprendere di queste discussioni, concerne la caratteristica di tutte le merci, compresa la merce-lavoro, di essere segni del lavoro sociale astratto.
Secondo la formulazione di Colletti (1969, p. 106), interessante non solo perché, come al solito, molto limpida, ma anche per le conseguenze che se ne possono trarre circa i modi di conoscenza del pensiero sociale, aspetto che qui però non tratterò secondo tale formulazione, dicevo, il lavoro sociale astratto è ciò che vi è di eguale e comune in tutte le concrete attività lavorative umane (falegnameria, tessitura, filatura, ecc.), quando queste attività siano considerate a prescindere dagli oggetti reali, o valori d'uso, che esse di fatto lavorano e in funzione dei quali si diversificano. Considerati come prodotti dal lavoro astratto, considerati cioè in riferimento ad un valore che li eguaglia e li rende scambiabili l'uno con l'altro, tutti i prodotti dei lavori concreti vedono cancellate le loro qualità sensibili di valori d'uso, per rappresentare ormai soltanto dei valori di scambio, valori di merci. In altri termini, un tavolo sta per tot ore di lavoro astratto, un vestito sta per altre tot ore di lavoro astratto, e ciò che in realtà si baratta o, servendosi dell'intermediario del denaro, si scambia, sono quantità di lavoro sociale astratto, cioè valori di scambio.
Non bisogna nascondersi il fatto che, nella scienza economica, per le difficoltà che sorgono dal tradurre il valore in prezzi (cioè, in valori di efficienza), questo modo di concepire la merce e il mercato è stato a più riprese contestato e rigettato. E a tal proposito, basti citare la travagliata riflessione di un Claudio Napoleoni che, cosa degna di nota, seguendo un percorso tutto interno all'economia politica, dalla negazione della teoria del valore-lavoro è giunto a riscoprire «l'altro come tuo primo bisogno», e l'uomo come «nodo di relazioni» naturali e sociali (Napoleoni, 1985). Oggi, Amartya Sen, con la sua teoria delle capacitazioni, cerca forse di rendere tecnico ciò che per Napoleoni restò solo un'orizzonte.
Ma tornando al filo del discorso, non bisogna nascondersi, dicevo, il fatto che la scienza economica rifiuta la teoria del valore-lavoro, e ciò per evitare quell'impressione di "mare tranquillo"nei rapporti tra le discipline, in particolare la semiotica e l'economia politica, che si ricava da Rossi Landi e Eco, come se le categorie dell'una potessero essere "verificate" senza residui dall'altra.
C'è indubbiamente questa categoria dello stare per che è un forte punto di contatto tra le due discipline, e che rende suggestiva l'ipotesi che la merce, in quanto sta per una certa quantità di lavoro sociale astratto, è in forza di ciò un segno. È a partire da qui che Eco ha proposto la sua nozione di cultura come semiotica generale, la quale si instaura nel momento in cui il lavoro di un essere pensante si fissa in una relazione di rimando ad uno scopo. Ad esempio, a seguito di una pratica fortuita e primordiale, un essere pensante userà pietre S1, S2, Š Sn, in funzione dello scopo di rompere delle noci, riconoscendole come occorrenze di ciò che egli, poco importa se pubblicamente o privatamente, ha denominato "pietra che serve a qualcosa", cioè a rompere delle noci (Eco, 1975, pp. 37-38).
È di tutta evidenza, e non meraviglia che ciò accada in Eco, che la relazione di rimando che rende semiotico quel lavoro ("la pietra che serve a qualcosa" e tutte le sue occorrenze stanno per lo scopo di rompere le noci) ricade interamente in una delle due definizioni di segno di Peirce, quella secondo la quale il rappresentare è uno «stare per, cioè essere in una tale relazione con un'altra entità da essere trattato da qualche intelletto per certi scopi come se si fosse l'altra entità» (Peirce, 2003, p. 163).
Notiamo ancora che Eco afferma che «se un essere vivente usa una pietra per spaccare una noce, non si può ancora parlare di cultura» (1975, p. 37). Di conseguenza, il lavoro produttivo di cui poi Eco si occuperà in tutto il suo Trattato, non sarà il lavoro in generale, ma solo il lavoro produttivo segnico, cioè lo sforzo fisico e psichico compiuto nell'interpretare e produrre segni, messaggi, testi (1975, p. 204). Notiamo, infine, che per Eco le discipline che studiano il lavoro produttivo segnico, sono la teoria dell'informazione, la fonetica, le scienze fisiche, poi la retorica in un senso ampio, e infine la logica e la filosofia dei linguaggi naturali. Solo marginalmente e genericamente vengono menzionate anche le altre scienze «che vertono sugli stessi argomenti» (1975, p. 205, tavola 31).
È questa barriera disciplinare così netta che qui vorrei provare un po' a scuotere, puntando lo sguardo su quel momento in cui il lavoro è ancora solo produttivo e sta per diventare segnico, prima insomma che la struttura semiotica si installi, e le discipline chiamate ad analizzarla stabiliscano la loro ferrea legalità.
Capisco che è come andare a cercare guai, perché, tentando di fissare qualche fotogramma in più della genesi, da un lato si rischia di perdere la cristallina purezza del lavoro produttivo segnico, dall'altro non si ha nemmeno il conforto dell'economia politica che, come ho già ricordato, rifiuta con buoni argomenti di teoria economica la categoria del lavoro da cui deriverebbe il valore di scambio delle merci, e quindi il carattere semiotico del mercato.
Tuttavia, ritengo che valga la pena di pagare il primo prezzo, e quanto al secondo, non essendo primariamente interessati all'analisi economica, possiamo limitarci ad estrapolare l'ipotesi antropologico-evolutiva che c'è dietro la concezione del valore-lavoro, così come la si ritrova nei padri fondatori dell'economia politica, da Locke, per il quale il lavoro era il modo in cui l'uomo si assimila la natura e da cui nasce il diritto alla proprietà privata, a Smith, che lo considerava nel quadro di un'etica "umanistica" della simpatia, sino allo stesso Marx, che è critico dell'uno e dell'altro, ma, come dire, per troppo generosità, perché nel lavoro vedeva la possibilità della realizzazione massima delle potenzialità umane, e gli dispiaceva che vi si vedesse solo la dimensione del sacrificio imposto dalla maledizione divina. Questo è un punto su cui ritornerò.
Intanto, se vogliamo riassumere quest'ipotesi antropologico-evolutiva, possiamo dire che Locke o Smith o Marx, tutti hanno più o meno sottolineato il fatto che dopo l'esplosione dell'istinto, il lavoro è stato il modo tipico dell'uomo di soddisfare i propri bisogni. In particolare, il lavoro è apparso come il mezzo che serve a raggiungere i fini legati al soddisfacimento dei bisogni umani. Questo rapporto mezzi/fini era prima incorporato nell'istinto (il castoro che costruisce le dighe, l'ape che dà vita all'alveare). Dopo l'esplosione dell'istinto, avvenuta con l'emergere e per l'emergere della specie umana, cioè dopo la rottura del legame meccanico e unideterminato tra mezzi e fini, il lavoro è stato la risposta adattiva tipica della specie umana per riaccordare questi "pezzi" del meccanismo finalistico.
La storia sociale del lavoro è poi un capitolo che è stato scritto soprattutto da Marx, quando ha mostrato che l'avvento del mercato capitalistico ha trasformato il lavoro, da mezzo per soddisfare bisogni, in una potenza sociale "macchinale" o "macchinica", (certo il termine "tecnologico" è troppo usurato per rendere l'idea di una concentrazione inaudita di tecnica e cognitività), di cui gli individui sono delle semplici appendici nervose (1857-1858, p. 709). È questo lo stadio del vero e proprio lavoro sociale astratto, un lavoro reificato, alienato, "estratto" dagli individui da quel potente ma cieco meccanismo di coordinazione dei mezzi con i fini che è il lavoro divenuto capitale. Ma qui possiamo tralasciare quest'aspetto, per concentrarci, invece, sulle conseguenze semioetiche che derivano, da un lato, da una concezione sostantiva, e non più semiotico-formale, del lavoro come struttura finalistica, e, dall'altro, da una concezione strumentalmente semiotica della merce come stare per, cioè come qualcosa (l'oggetto sensibile che soddisfa un nostro bisogno) che sta al posto di qualcos'altro (la quantità di lavoro sociale astratto necessaria a produrlo).
A questo punto, consideriamo le due definizioni di segno che si ritrovano in Peirce, la prima, già richiamata, secondo la quale il segno è qualcosa che sta al posto di qualcos'altro, in funzione di un qualche scopo; la seconda che afferma che il segno è un mezzo per rendere efficienti relazioni inefficienti (Peirce, 2003, p. 191). Dopo l'esplosione dell'istinto, l'efficienza della relazione mezzi/fini è cruciale per l'adattamento vitale della specie umana,. Qual è allora il legame tra il segno così definito e l'adattamento vitale post-istintuale? Leggiamo l'analisi dell'atto del dare che Peirce ci propone:
Vorrei far notare che le forme primitive del baratto sono regolate da un'eticheta che appare curiosamente simile alla terzità degenerata di Peirce, cioè qualcuno lascia cadere "casualmente" qualcosa che qualcun altro successivamente altrettanto "casualmente" raccoglie (Polany, 1944, p. 80). Ma più che terzità degenerata, qui c'è, da un lato, il permanere piacevole nella degenerazione che segue all'esplosione dell'istinto e che precede l'instaurarsi del mentale; dall'altro, terzità germinale, com'è testimoniato dal fatto che lo scambio risponde ad una logica sociale di reciprocità, irriducibile al punto di vista economico-razionale.
Vorrei far notare ancora che qualcosa di simile si riproduce sui treni, gli autobus o i caffè soprattutto del Nord Europa, con quelle ragazze o ragazzi che passano, lasciano un ninnolo ad ogni passeggero o avventore, e ripassano poco dopo ritirando le monete che ciascuno di essi ha deciso di dar loro. In questa pratica silenziosa che, certo, non è più un dare, ma un sollecitare, sollecitare un dono, si sarebbe tentati di vedere ancora una volta una logica economica mascherata o degenerata, quando probabilmente non si ha altro che una residua luminescenza della "gratuità" del legame sociale andata perduta in una società interamente retta dalla logica economica.
Ma tornando all'etichetta del baratto primitivo, e alla strana terzità che ci rivela, potremmo dire che essa è come se testimoniasse dell'impulso a godere dell'infinita libertà acquisita dopo la fine della costrizione della relazione istintuale mezzi/fine, e prima che si instauri il «mentale» (Peirce), cioè la regolazione costruita della relazione mezzi/fini. Ma costruita, come?
L'abbiamo visto: un contributo importante lo dà il segno, sub specie di abito, in quanto mezzo per rendere efficienti relazioni inefficienti. Ma c'è dell'altro. Una delle prime manifestazioni discorsive della figura deontica del Dovere è, subito dopo il divieto di conoscere il fondamento della morale, la maledizione divina seguita alla caduta, e riportataci dal Genesi: "Lavorerai con il sudore della tua fronte". Una figura che si manifesta proprio quando esplode quella consonanza istintuale tra natura e bisogni trasfigurata nel mito del Paradiso terrestre.
Intendiamoci, non voglio dire che prima di quella "rottura" non ci sia lavoro. Se leggiamo il resoconto del Genesi, vediamo che Dio crea Adamo e lo pone nel bel giardino perché lo mantenga e lo custodisca. Non è, dunque, che Adamo è posto nel giardino perché non faccia nulla. Adamo ha un lavoro da fare, quello di mantenere e custodire il giardino. Semplicemente, si tratta di un lavoro che risponde ad una causalità posta non da lui, ma da Dio. Egli è strumento di una teleologia che lo sovrasta. Solo quando Adamo pecca, indotto in cio dalla sua compagna, e viene scacciato dal giardino, il lavoro diventa un'alternativa: lavorare e sopravvivere, non lavorare e morire. Il lavoro diventa, dunque, oggetto di scelta, e allora si rende necessario un regolatore sociale che conformi la decisione ai bisogni vitali.
Osservo di passata che in questo racconto delle origini la donna appare come un operatore di libertà. Ma il punto che voglio sottolineare, e che riconduce alla traccia principale del nostro ragionamento, è che, come il segno, anche il Dovere si presenta come un mezzo per rendere efficienti relazioni inefficienti, un mezzo per contro-bilanciare l'impulso a dissipare energia, in assenza ormai delle regolazioni automatiche dell'istinto. Nella sua prima forma costrittiva, ecco allora il carattere adattivo della morale, su cui, dai sociologi agli etologi, si insiste. Ma ciò significa anche che, originariamente, il «mentale» di Peirce è, oltreché semiotico (segno), anche etico (Dovere), in quanto si instaura grazie alla funzione adattiva tanto del segno, quanto del Dovere.
L'impulso, poi, che ha portato a escogitare il segno e il Dovere come mezzi adattivi, non può che essere l'istinto di sopravvivenza, esattamente opposto all'istinto di morte che si manifesta nella dissipazione piacevole della reciprocità sociale primitiva, ma anche del simbolo. Qui si vede il carattere sofistico e forse patologico di chi, mondanizzando il pessimismo religioso del racconto biblico delle origini, ha preteso di raffigurare l'uomo come "gettato nel mondo", rappresentandolo in preda all'angoscia. Così facendo, si è enfatizzato il momento negativo di una situazione che in realtà non è tanto dominata dalla paura della morte o dalla speranza di qualcuno o qualcosa che ci salvi, ma è piuttosto caratterizzata dal desiderio di vivere. In realtà, in quanto essere biologico, l'uomo desidera, desidera vivere, e questo desiderio incontra la resistenza dell'ambiente. Un'ontologia non mistificatrice non può essere, allora, quella esistenzialista dell'angoscia, della morte e del nulla, ma un'ontologia realista di un soggetto che nel suo desiderio di vivere incontra la forza di resistenza dell'oggetto.
Sul terreno di una tale ontologia realista reincontriamo, come già annunciato, György Lukács, autore in vecchiaia della grande Ontologia dell'essere sociale, e possiamo riprendere il discorso su Peirce, per un confronto che chiarisca e arricchisca entrambe le prospettive. Fra i due, infatti, c'è una insospettabile ma credo non superficiale convergenza che verte intorno alla dicotomia tra causalità e teleologia, ovvero per dirla ancora con Mayr, tra processi teleomatici e processi teleonomici. Una dicotomia, che almeno per quanto riguarda Peirce, ma in maniera più sottintesa anche Lukács, innerva l'ontologia su cui edificare ogni semiotica (Lukács direbbe: ogni teoria dell'ideologia). Data la vastità della trattazione, specie in Lukács, il confronto che proporrò non è organico. A titolo di esperimento, oltre a fare riferimento agli scritti canonici di Peirce, ho utilizzato qui di Lukács, oltre che alcuni luoghi dei Prolegomeni all'ontologia dell'essere sociale, sorta di abrégé della grande Ontologia, soprattutto un piccolo testo di sintesi che egli redasse come comunicazione ad un congresso di filosofia della fine degli anni sessanta, che ebbe luogo a Vienna, e a cui poi non partecipò. In lingua italiana, lo scritto si intitola Le basi ontologiche del pensiero e dell'attività dell'uomo, ed è stato pubblicato nel 1973, assieme a un saggio Su Lenin e il contenuto attuale del concetto di rivoluzione, dagli Editori Riuniti, in un volumetto ormai credo introvabile dal titolo complessivo e sommario L'uomo e la rivoluzione. Benché dunque la base testuale del confronto sia limitata, credo che, per gli scopi che qui mi propongo, il rischio dell'incompletezza andava corso, anche perché il confronto ci permetterà un rilancio sul tema del lavoro come intelligenza applicata all'adattamento vitale dopo l'esplosione dell'istinto. Entrando in argomento, ricorderò che la tripartizione ontologica di Peirce è quella che abbiamo incontrato nel brano sopra letto, dove si distingue una Primità, una Secondità e una Terzità. Abbozzando una analisi pragmatista dei significati modellata sulla valenza e la combinabilità degli elementi della tavola chimica di Mendeleev, Peirce così definisce una prima volta le tre classi di caratteri o predicati denominate appunto Primità, Secondità e Terzità:
Un'altra definizione delle stesse categorie è la seguente:
Da questi passi credo che si comprenda agevolmente come l'intento di Peirce sia di costruire una ontologia logico-formale capace di districarsi dalla pastoie della materia. Per Peirce, infatti, le classificazioni fondate sulla forma sono di molto superiori per la comprensione scientifica delle cose, di quelle fondate sulla materia. E la classificazione chimica di Mendeleev, con la sua distinzione tra «gruppi» (cioè fra le diverse colonne verticali dela tavola), e «serie» (cioè le diverse file orizzontali della tavola), ne è per lui un chiaro esempio. Infatti, mentre le distinzioni fra gruppi dipendono dalle differenti valenze degli elementi, le distinzioni fra serie dipendono dal fatto, «non tanto formale, quanto materiale, che gli atomi degli elementi di una "serie" hanno masse maggiori degli atomi di un'altra serie». Ugualmente, elementi che si trovano in differenti file orizzontali, ma nella stessa colonna verticale, presentano sempre marcate differenze fisiche, ma il loro comportamento chimico a temperature corrispondenti è esattamente simile (Perice, 2003, p. 258).
Il privilegiamento del principio della forma sulla materia che Peirce pone a base della sua ontologia, comporta di conseguenza il superamento della distinzione tra organico e inorganico, che è invece quella cui si attiene Lukács, il quale distingue tra mondo inorganico, organico e sociale, secondo il criterio della predicabilità o meno, per ciascuno di questo regno dell'essere, delle categorie di valore e dover essere. Nella natura inorganica, nota Lukács (1969, p. 27), è di tutta evidenza che i mutamenti da un modo di essere all'altro non hanno nulla a che fare né coi valori, né con il dover essere. Nella natura organica, nota ancora Lukács, il processo di riproduzione significa ontologicamente adattamento all'ambiente, e si può già parlare di riuscita o di insuccesso. Dal punto di vista ontologico, però, non si oltrepassa il mero passaggio da uno stato A precedente, a uno stato B susseguente. Completamente diversa è la situazione quando si entra nel mondo sociale, dove gli oggetti incorporano quale proprietà effettiva il loro essere finalizzati ad un qualche scopo, il che fa sì che gli oggetti assumano un valore per chi pone lo scopo.
Come si vede, a questo livello, il punto di vista di Lukács è più tradizionale di quello di Peirce, poiché la sua tripartizione è ancora di tipo sostanzialistico. Ciò che è interessante, però, è la parentela, segnalata già dal concetto di scopo, e al tempo stesso la contrapposizione delle forze che, per così dire, muovono queste tripartizioni.
In effetti, la tripartizione di Peirce, per il suo carattere non solo ontologico, ma anche logico, sembra essere fatta apposta per fare a meno di qualsiasi dinamismo. Si vede però che ciò non appaga Peirce, se è vero che egli tenta di dinamizzarla tramite un Amore universale dal carattere orgogliosamente lamarckiano. Ritengo infatti che la sua teoria agapica non sia una bizzarria di un pensatore altrimenti geniale, ma una parte essenziale del suo pensiero, contro cui non serve far finta di niente, né minimizzarne o ignorarne, più o meno consapevolemente, gli aspetti sorpendenti o addirittura imbarazzanti. Il lamarckismo, ad esempio, è uno di tali aspetti.
Ma tornando a Lukács, la sua tripartizione ontologica, che a prima vista appare appesantita dalla distinzione sostanzialistica tra organico e inorganico, è poi mossa dal dinamismo di una forza più terrena e, direi, darwiniana, ma direi ancora meglio piagettiana. Mi riferisco al lavoro inteso come struttura finalistica:
Questi passi ricorrono in contesti in cui, Lukács sembra un nuovo George Sorel, interessato com'è a rimuovere le incrostazioni fatalistiche e dogmatiche che si erano attaccate al marxismo. Ma possiamo tralasciare questi aspetti contingenti di lotta ideologica, e concentrarci su quelli di interesse permanente del suo discorso.
Intanto, Lukács parla di «forme dell'essere». Dunque, come in Peirce, c'è la preoccupazione di dare una ontologia generale. Come in Peirce, anche la pietra fa parte dell'essere.
Poi, c'è chiara e netta la distinzione tra processi teleomatici, rappresentati della causalità quale legge spontanea dell'essere stesso, e processi teleonomici, rappresentati da un soggetto che pone. Che pone dei fini alla sua attività.
Ancora, il lavoro è la sorgente stessa della teleonomia. Esso è, al tempo stesso, porre consapevole di fini e mezzi determinati, e conoscenza concreta anche se mai perfetta. Il lavoro, dunque, sia staticamente (conoscenza) che dinamicamente (porre), è una struttura cognitiva a parte intera. Non mi pare esagerato dire che, in quanto tale, il lavoro di Lukács altro non è che l'intelligenza di Piaget e il segno di Peirce finalisticamente inteso. Ma mentre Peirce e Piaget indagano la mente-segno lasciando ai margini la concretezza del mondo sociale, salvo più o meno sapienti recuperi, e sui recuperi di Piaget tornerò brevemente alla fine, Lukács invece parte proprio dal mondo sociale, per vedere come l'azione intelligente dell'uomo, cioè il suo lavoro, lo modella. L'intelligenza, dunque, nella sua concretezza sociale e, aggiungerei, in forza di quanto abbiamo visto prima, nella sua pesantezza deontica. L'intelligenza come lavoro.
Ma ancora altre due notazioni si impongono circa questa ontologia sociale di Lukács. La prima. Tanto Piaget, tentato a volte da un certo finalismo normativo, quanto Peirce, nettamente schierato per un irenismo lamarckiano come meta finale dell'evoluzione, hanno un rapporto conflittuale con il darwinismo. Invece, la concezione generale dell'evoluzione sociale cui Lukács perviene è direi perfettamente darwiniana, nel senso in cui la precisa Mayr.
Per Mayr, la controversia se l'evoluzione dai batteri all'uomo sia un progresso non può riguardare la biologia. La biologia, infatti, non ha nulla da dire circa una teleologia cosmica. La selezione naturale, infatti, non è un processo teleologico, ma un processo casuale di ottimizzazione che noi constastiamo a posteriori.
Ora, ciò che Mayr afferma a proposito del mondo naturale, Lukács lo afferma a proposito del mondo bio-sociale umano. Con le loro infinite posizioni teleologiche, i soggetti mettono in moto infinite serie causali di cui hanno una coscienza assai limitata, a volte addirittura una non-coscienza, per così dire, che li spinge ad agire contro i loro convincimenti. Lo stadio a cui si trova pervenuto l'uomo (homo sapiens sapiens) è il prodotto di tali serie causali. Tale processo, però, non ha uno scopo (Lukács, 1969, p. 36), non è finious, non è teleologico. Esso, se vogliamo stare ad una preoccupazione espressa da Piaget a proposito dell'evoluzione darwiniana, è soggetto a sprechi, e avanza per contraddizioni immanenti al complesso stesso delle serie causali innescate dalle posizioni teleologiche dei soggetti (Lukács, 1969, pp. 32 e 36). Il mondo descrittoci da Lukács è quello di un soggetto che deve porre dei fini se vuole sopravvivere, ma senza mai essere in grado di vedere tutte le condizioni e le conseguenze della propria attività (Lukács, 1969, p. 28).
Tornerò fra un attimo su questo aspetto. Intanto, vorrei osservare che molto semplicemente, ma in modo anche molto austero, per questo soggetto adattarsi ad un mondo è decidere tra alternative in condizioni di incertezza. C'è qualcosa del velo di ignoranza di Rawls, trasposto però dal terreno normativo a quello ontologico. Ma soprattutto non c'è la sottolineatura dell'angoscia mortale cui una simile condizione espone. C'è solo l'utopia come prodotto, a sua volta, possibile ma non necessario, delle energie umane che lo sviluppo verificatosi fino a oggi ha suscitato (Lukács, 1969, p. 38). Un totale immanentismo, certo, che può anche dare un senso di claustrofobia. Ma l'alternativa è o un qualche dio che, ancora una volta, ci salvi, oppure lo sforzo di gettare uno sguardo per quanto è possibile penetrante oltre il luogo chiuso in cui la nostra condizione bio-sociale ci pone.
Spezzando un po' il filo del discorso, vorrei fare a questo punto, una diversione su un aspetto, come dire, molto classico del pensiero di Lukács, ma che, a distanza ravvicinata, si rivela, almeno a mio parere, sorprendentemente fresco e attuale. Mi riferisco alla sua teoria dell'ideologia che deriva dalla sua ontologia, analogamente a quanto accade in Peirce per la teoria del segno fondata anche lì su una ontologia.
Da un marxista come Lukács, ci aspetteremo una riproposizione, per quanto smaliziata e personale, di una teoria dell'ideologia come "falsa coscienza" della realtà. Ma Lukács respinge dichiaratamente una tale prospettiva (1970, p. 6) e, pur mimando il solito costume delle glosse a Marx, abbozza una teoria dell'ideologia per nulla dogmatica, i cui capisaldi sono i seguenti:
1) non esisterebbe ideologia se l'uomo non fosse quella macchina finalistica teleologica in gradi di porsi delle alternative: fare o non fare qualcosa. L'ideologia è, dunque, legata a quella condizione post-istintuale che chiamiamo libertà umana;
2) funzione dell'ideologia è, infatti, quella di raccordare le molteplici, infinite decisioni dei singoli componenti di una totalità sociale, e di chiarire loro la necessità di tenere conto, nelle loro decisioni, degli interessi complessivi della società. Una funzione, dunque, normativo-persuasiva che, contrariamente a quanto sosterrebbe un Pareto, assegna all'ideologia la capacità di incidere sul corso dell'azione;
3) quale meccanismo di pensiero, l'ideologia funziona per proiezioni analogiche di proprie esperienze ontologiche sull'essere in generale. Di qui le entificazioni, le personificazioni, le generalizzaizoni "abusive". Le interpretazioni sorte intorno all'esperienza del lavoro sono un esempio tipico di tali proiezioni: «Tutti gli dei delle religioni naturali hanno delle "funzioni lavorative"a fondamento della loro esistenza» (1970, p. 14);
4) assieme al lavoro, il linguaggio che ontologicamente viene in essere simultaneamente al lavoro (1970, p. 14) è la parte più importante della vita visibile, percepibile dell'uomo, soprattutto nelle fasi primordiali del suo stare in società. Il linguaggio, pertanto, fornisce un ausilio essenziale alla edificazione delle ideologie, per esempio attraverso l'attività di dare e di dire i nomi delle cose un'attività che, certo, nella successiva attività semiotica diventa "minore" e "secondaria", ma di cui qui si vede l'importanza nelle prime fasi della socialità umana. Quindi, carattere linguistico dell'ideologia;
5) l'ideologia, in quanto livello "deformato" della realtà, si riadegua alla prassi sociale tramite altri processi ideologici che rischiarano e ripuliscono l'essere sociale stesso (1970, p. 15). Così come non si esce mai dalla semiosi, altrettanto non si esce mai dall'ideologia;
6) i meccanismi di pensiero "proeittivi" e i "giochi linguistici" magico-religiosi sono solo strumenti di una più generale cognitività diremmo oggi, di una mente che nasce limitata: nel suo agire, infatti, l'uomo non ha mai presente tutte le circostanze e le conseguenze che derivano dalle sue decisioni (1970, p. 15). Il "velo di ignoranza" è, dunque, in Lukács, oltreché una caratteristica ontologico-normativa, anche una proprietà della mente, un carattere della cognitività umana.
Come si vede, e come avevo annunciato, si tratta di una teoria dell'ideologia ben lontana dal semplicismo dell'ideologia come "falsa coscienza". Al contrario, così come si potrebbe mostrare con una opportuna rilettura della grande Estetica, cosa che mi riprometto di fare in un successivo lavoro, si tratta dell'originale orchestrazione di molteplici motivi empiristi e razionalisti, volta ad evidenziare una struttura infralinguistica all'opera nel comportamento quotidiano, e che collega dialetticamente lo schematismo primario, che l'uomo condivide con gli altri animali, e il pensiero discorsivo (1963, II, pp. 815 sgg.). Insomma, una teoria dell'ideologia che è, in effetti, parte di una più generale teoria della mente come cognitività limitata, una concezione oggi all'ordine del giorno in scienza cognitiva, ma che Lukács abbozzò in tempi insospettati, integrandovi l'ineliminabile dimensione della genesi storico-sociale (Tertulian, 2003; 2004).
Torniamo al filo del nostro discorso. Dicevamo, due notazioni circa l'ontologia sociale di Lukács. La prima ci ha messo di fronte alla austera libertà dell'essere sociale di Lukács, con la necessità che lo caratterizza di gettare uno sguardo, per quanto è possibile penetrante oltre il luogo chiuso della sua condizione bio-sociale.
La seconda, ad essa in qualche modo legata, concerne il livello simbolico e normativo delle strutture finalistiche. Come ricorda lo stesso Lukács, il lavoro è il modello diretto su cui si esempla la creazione divina della realtà (1969, p. 29). Dunque, oltre il finalismo delle strutture, permane sempre lo spazio soggettivo del simbolico, del mitologico, dell'ideologico, nei cui confronti, in determinati periodi storici, il lavoro-intelligenza addirittura appare come un'energia al loro servizio. Basti pensare all'utilizzazione del valore d'uso del lavoro per la costruzione di un simbolo quali le piramidi egiziane. A questo proposito, però, Marx ha mostrato che, con l'avvento del capitale, lo scopo ultimo del lavoro trasformato in capitale sociale è «l'universale ricchezza di forma e di contenuto della produzione» (1857-1858, II, p. 793). Ci troviamo qui in uno dei luoghi d'elezione dove è nata l'idea secondo la quale il nesso di scienza, tecnica e lavoro rappresentato dal capitale avrebbe inglobato il simbolico, e che l'unico scopo sopravvissuto sia quello dell'accrescimento infinito della produzione. E una prova di ciò sarebbe lo stadio attuale dello sviluppo del capitale che, in funzione di quell'unico scopo, colonizzerebbe con le marche (brands), ovvero con simboli-parassiti, gli spazi connotativi dell'esistenza.
Di qui, allora, la domanda: con il capitale, le strutture finalistiche, trasformate esse stesse in scopo ultimo, sono arrivate alla fase terminale in cui fagociteranno l'uomo e i suoi bisogni, ivi compresi quelli simbolici? Contro quella che appare l'incontrollabile potenza delle strutture finalistiche, è possibile trovare in Lukács una risposta che concerne il livello normativo della società. Ogni società, nota Lukács in un modo che si presta agevolmente a essere tradotto nei termini sociogenetici di Piaget (1977, p. 49), si sviluppa oltre il grado puramente causale, per pervenire al livello implicativo dell'indurre, dello spingere, del costringere, oppure del trattenere gli uomini da determinate decisioni teleologiche (Lukács, 1969, p. 32). Al di là della sfera della produzione, che sembra esaurire l'Umwelt dell'uomo contemporaneo, ecco apparire lo spazio del discorso normativo, con la sua tipica funzione persuasiva, di cui Lukács ha cura di citare i singoli atti linguistici. Discorso normativo che, potremmo dire con Peirce (2003, pp. 1101 sgg.), sta in una posizione ontologica non di estraneità o di opposizione, ma piuttosto di «continuità» con il lavoro. Il contenuto del dover essere, afferma infatti Lukács,
Dunque, continuità ontologica in grado di esibire la genesi delle proposizioni normative. Non si può non sottolineare, tuttavia, che, almeno in questo testo, l'esigenza di esibire la genesi resta semplicemente affermata da parte di Lukács, che incorre in un arresto meccanicistico. Lukács, infatti, dapprima si limita a riproporre (e non è poco) la definizione kantiana di dover essere, quale comportamento determinato da «fini sociali», cioè da norme, che non coincidano con inclinazioni semplicemente naturali o spontaneamente umane. Successivamente, demanda la necessità di tale principio al fatto che ogni movimento del lavoro degli uomini deve essere diretto da fini determinati in precedenza. Il dover essere sarebbe dunque un segmento del filamento teleologico del lavoro, di modo che una volta che una posizione teleologica è posta, il dover essere successivamente si installa. Non si può non ammirare l'immaginazione biologica che sta dietro questa spiegazione della libertà umana, la quale, come un filamento di DNA che si srotola, deriverebbe dagli stessi materiali della causalità. A mio parere, tuttavia, l'analogia biologica profonda che sta dietro questa spiegazione sacrifica l'autonomia del soggetto che si trova ancora una volta determinato da un meccanismo che lo sovrasta, e comprime livelli che, pur nell'ipotesi suggestiva della continuità ontologica, vanno salvaguardati nella loro specificità etica. Da questo punto di vista, va posta la condizione che i «fini sociali» siano il risultato di un dibattito pubblico al quale l'individuo partecipa liberamente. E nel passaggio dalla causalità organica all'implicazione normativa va valorizzata l'ipotesi della struttura evolutiva del rispetto, in modo che il dover essere kantiano preziosamente riaffermato da Lukács non sia il portato di un meccanismo evolutivo "cieco", ma l'esito di una costruzione dove intervengono effettivamente e progressivamente le libere determinazioni del soggetto in interazione con gli altri soggetti.
Tra la fine degli anni venti e i primi anni trenta del secolo scorso, in rapidi saggi psicogenetici e sociogenetici culminati nel Giudizio morale nel fanciullo, e la maggior parte dei quali raccolti poi in volume solo nei tardi anni settanta, Piaget propone un modello evolutivo che spiega il passaggio dalle forme di socialità costrittive, dominate dal pensiero sociocentrico, alle forme di socialità cooperatorie, in cui il pensiero decentrato fonda e si alimenta della nuova libertà dell'argomentazione (Piaget, 1932; 1977).
Nel 1932, giusto l'anno di pubblicazione del Giudizio morale nel fanciullo, Henri Bergson, già anziano e troppo prestigioso per poter prendere in considerazione il punto di vista del valente ma ancor giovane Piaget, riformula il problema, proponendo una spiegazione alternativa di tale passaggio. Secondo Bergson, la società prodotta dalla natura è una società chiusa, retta cioè dall'istinto e dall'abitudine ("si fa così, perché si fa così"). L'esperienza mistica, di ordine emozionale, e che è propria dei santi e degli eroi, conduce alla società aperta. Lo slancio emozionale verso la società aperta è sorretto e provocato dalla facoltà "fabulatrice", cioè dall'atto che fa sorgere le rappresentazioni fantasmatiche che si concretizzano nei miti, nei drammi, nei romanzi, nelle produzioni artistiche (1932, p. 111).
Qualche anno più tardi, ormai in piena guerra mondiale, Karl Popper, indipendentemente dalla precedente elaborazione di Piaget, riprende la terminologia della dicotomia di Bergson e, riformulandola teoricamente in termini che si ritrovano già in nuce in Piaget, ne fa un modello di spiegazione, al tempo stesso teorico e politico, della genesi della civiltà occidentale. Secondo Popper, il totalitarismo contro cui le nazioni libere in quel momento si battevano, è la risposta ricorrente allo stress della rottura del legame naturale su cui riposa la società tribale o chiusa (1943, I, p. 248; II, p. 82). Da quella rottura, operatasi per la prima volta nella civiltà greca, e di cui è emblema il dialogo socratico, è derivata la società aperta, fondata sulla discussione come sincero desiderio di comprendere il discorso proposto dall'interlocutore (1969, pp. 597-598).
Con questa difesa della funzione argomentativa del linguaggio (1969, pp. 231-232) che sarebbe piaciuta non solo a Piaget, ma anche a Guido Calogero, Popper si oppone ad ogni forma di pragmatismo, da quello irrazionalista di un Bergson, a quello a sfondo biologico di un Uexküll, con il suo Umwelt quale estensione della biologicità umana (1969, pp. 648-649). Il pragmatismo, infatti, identificando la conoscenza con l'azione, dissolve l'oggetto e la possibilità da parte del soggetto di condurvi sopra un discorso conoscitivo critico una posizione, anche questa, che Piaget, impegnato a spiegare geneticamente la costruzione dell'oggetto, avrebbe senz'altro apprezzato. Questa gnoseologia realista, che nella versione razionalista di Popper si nutre di fede nella ragione (1943, II, pp. 303-304), e nella versione genetica di Piaget di fiducia nelle autoregolazioni della scienza (1928, pp. 38-39), credo che, raffreddatesi ormai le linee di scontro che hanno minato l'unità interna del pensiero critico, si sposi bene con l'ontologia sociale realista di György Lukács, di cui prima ho presentato e discusso qualche tratto.
Può sembrare anacronistico ripresentare questo paradigma di pensiero realista oggi che siamo invitati a guardare al mondo contemporaneo come ad un desolato paesaggio di patti sociali falliti e di stati di natura qui e là risorgenti, ma il dibattito filosofico che ho sommariamente richiamato intorno alle radici sociali e politiche del pensiero critico, avvenne in un momento in cui sembrava che "la distruzione della ragione", giusto il titolo di uno dei libri più controversi di Lukács, fosse completa e definitiva. Oggi come allora, non abbiamo alcuna certezza di ritrovare nuovi equilibri, ma non possiamo nemmeno sottrarci all'istinto di sopravvivenza che ci impone di tentare di costruirne di nuovi, magari più segnati dalla saggezza degli errori commessi.